SANPA: LUCI E TENEBRE DI SAN PATRIGNANO, recensione di Roberta Soro

Il fine giustifica i mezzi? 

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La nuova serie evento di Netflix è un prodotto tutto italiano, sviluppato partendo da un’idea di Gianluca Neri attraverso la regia di Cosima Spender. La primissima docuserie italiana ad approdare sulla piattaforma di streaming sta riscontrando un successo internazionale scalando ininterrottamente le classifiche di oltre 180 stati. Una vittoria importante per la cinematografia del nostro paese, che, sfruttando l’enorme visibilità del colosso americano, ha voluto fare luce su uno dei casi mediatici più eclatanti della nostra storia, ormai relegato al dimenticatoio.  

“SanPa: Luci e tenebre di San Patrignano” fa il suo esordio il 30 Dicembre 2020, chiudendo l’anno con le voci dei testimoni che raccontano dettagliatamente i primi 15 anni della comunità e l’uomo dietro al miracolo: Vincenzo Muccioli.  

Fondata nel 1978 da quest’ultimo in un podere sui colli della campagna riminese, la comunità di San Patrignano si presenta inizialmente come un paradiso, la definitiva cura al male che stava mettendo in ginocchio l’Italia: l’eroina. I tossicodipendenti vengono accolti a braccia aperte dal vocione profondo di Muccioli, che, considerandoli alla stregua di figli propri, inizia con loro a ristrutturare il possedimento di famiglia, strappandoli alla droga con il lavoro e l’amore. 

Ma non è tutto oro quel che luccica.  Qualche anno dopo l’apertura della comunità iniziano a trapelare voci e denunce riguardo ai metodi del direttore, che sfociano nel cosiddetto “Processo delle catene”: infatti, il bonario padre di famiglia che bacia e abbraccia i suoi ragazzi in diretta tv ha anche un lato d’ombra: i tossicodipendenti venivano incatenati in luoghi bui e sporchi, come la piccionaia o il tino del vino, per evitare che scappassero. Nonostante Muccioli non parli mai di violenza come parte integrante del processo terapeutico, ammette di doversi comportare come un padre che quando necessario “tira due schiaffoni” ai propri figli. 

Ma gli scandali legati a san Patrignano non si concludono qui.  

L’idilliaca tenuta campestre, centro di recupero modello tra splendidi cavalli e cani di razza, deve sottostare ad accuse di truffa, maltrattamenti e per finire omicidio e occultamento di cadavere. 

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Le vicende vengono mostrate in maniera lineare tramite il montaggio di testimonianze, video dell’epoca e immagini provenienti dagli archivi legali, partendo dagli anni d’oro della fondazione per giungere, attraverso il lungo calvario dei processi e della malattia, alla morte di Vincenzo Muccioli. 

L’intento non è però, a parer mio, completamente raggiunto. Nonostante il chiaroscuro di opinioni che si crea attorno al nucleo del racconto, prevalgono spesso gli aspetti negativi e a momenti il tutto appare come una battaglia tra Andrea Muccioli, che continua ancora oggi a difendere il nome di suo padre, e chi critica quest’ultimo. A denunciare la disparità della cronaca è anche l’ex presentatore televisivo Red Ronnie, presente nel cast di SanPa nelle vesti di testimone e grande amico di Vincenzo Muccioli, come del resto era anche la potente famiglia Moratti. 

Effettivamente l’opinione di chi guarda è fortemente influenzata dalle immagini crude e senza filtri delle celle e delle catene, e dalla minore presenza di testimoni favorevoli alla causa rispetto a quelli contrari. Pur senza volerlo dunque, o almeno senza ammetterlo, il documentario sembra fraintendere il senso di una comunità in cui tanti sono stati maltrattati, uno è morto, ma ancora di più sono stati salvati dal baratro e reinseriti in società. 

“Non ho mai sopportato chi diceva che era tutto bene. Non ho mai sopportato neanche chi diceva che era tutto male” 

-Luciano Nigro, Giornalista dell’Unità 

All’epoca dei fatti Luciano Nigro aveva seguito con attenzione il caso Muccioli e ha raccontato la sua esperienza davanti alle telecamere di Netflix. La sua dichiarazione riassume perfettamente il senso delle vicende, e ci porta quindi a chiederci se il mancato equilibrio del racconto sia dovuto all’opinione dei produttori o se sia invece conseguente al riportare una storia torbida e distorta, sfuggita di mano ai suoi stessi protagonisti.  

Il grande interrogativo posto dalla cronaca su San Patrignano, e attorno al quale tutta la struttura del documentario ruota, è la legittimazione dei metodi utilizzati in vista dei risultati ottenuti. Detto in poche parole, quanto il fine possa effettivamente giustificare i mezzi. 

La degenerazione del centro di recupero non può essere sciolta dall’intenso lavoro sociale che esso ha svolto e continua a svolgere ancora oggi sotto la direzione di Andrea Muccioli. Sono proprio gli ex-tossicodipendenti che prendono parte alla serie a mostrarci quanto sia importante una comunità che, seppur con i suoi lati oscuri, abbia davvero fiducia nei suoi ospiti. Tra questi spicca Walter Delogu, autista e fidato collaboratore di Muccioli, che, nonostante le divergenze e il suo ruolo nel processo contro il fondatore, riconosce l’importanza che egli ha avuto nella sua vita e gli sarà eternamente grato per avergliela salvata. Sono in tanti ad essersi liberati dalle catene della droga grazie a San Patrignano, alle sue luci e in alcuni casi anche alle sue ombre, come Paolo Negri, filosofo, e Antonio Boschini, laureato in medicina. 

Dunque SanPa non ci racconta solo l’involuzione della comunità, non si focalizza esclusivamente sulla critica e sulla vita di Muccioli, ma è un mosaico di storie di rinascita e riscatto sociale, raccontato con le lacrime agli occhi da chi trent’anni fa non credeva ci sarebbe stata la luce in fondo al tunnel. 

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