AGORÀ

IL DIALOGO INTERRELIGIOSO, PROGETTO DIDATTICO

Il progetto didattico, curato dal prof. Priamo Marratzu, docente di religione, ha visto coinvolti gli alunni delle classi quinte del Liceo Classico e del Liceo Linguistico.

Tutte le classi hanno realizzato una serie di podcast sul dialogo interreligioso partendo dall’analisi del documento del concilio Vaticano II “Nostra aetate” individuando analogie e differenze tra cattolicesimo e una religione del mondo. Il lavoro interamente realizzato in classe ha prodotto oltre trenta podcast premiati con un piccolo riconoscimento per tutti i 64 studenti.

Sono stati valutati originalità del prodotto qualità della ricerca e qualità della registrazione.

Cliccando sul banner sarà possibile ascoltare tutti i podcast registrati dagli alunni e pubblicati su Agoràdio, la web radio del Liceo Asproni

AGORÀ MARZO/APRILE

Agorà torna più forte che mai, e questa volta abbiamo deciso di fare 2 numeri in 1, dove lo trovate un giornalino così ?!

PASSATO E PRESENTE, FIGURE FEMMINILI A CONFRONTO

Il percorso di seguito proposto nasce da una serie di riflessioni critiche condotte a partire dai grandi personaggi femminili delle tragedie greche. I loro caratteri, le loro scelte, i loro drammi trovano straordinarie consonanze in molte figure di donne del nostro tempo, e possono suggerire significative sollecitazioni per “leggere” ed approfondire la nostra realtà. Vite che parlano ancora della nostra vita…


Venturella Frogheri

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Intervista al dott. Sergio Flore di Maria Antonietta Balvis

In seguito al progetto “Asproniani da Nivola” tenuto dal professor Sergio Flore a partire dal 23 di febbraio, con la partecipazione delle classi quinte, in una serie di giornate è stata presentata nel dettaglio quella che è stata la vita dell’artista oranese Costantino Nivola e la visione e spiegazione a 360 gradi delle sue opere e della sua poetica di artista in collegamento con tante tematiche che ancora oggi risultano molto attuali.

Da quanto tempo svolge questo lavoro?

Lavoro al museo Nivola da 12 anni.

Quando ha capito che era quello che voleva fare nella vita?

In realtà, fa parte un po’ della mia vocazione e anche degli studi universitari. Già durante gli anni dell’università, affrontando gli studi della didattica dell’arte ho capito che quello sarebbe stato il mio futuro. Una volta ritornato a Orani, arrivato al museo Nivola, il dipartimento di cui mi occupo è nato con me, fino a qualche anno fa non esisteva, quindi ho avuto anche carta bianca nell’impostazione e coordinazione dei lavori.

Qual è stato il suo percorso di studi per poter intraprendere questa carriera?

Ho studiato conservazione dei beni culturali presso l’università Carlo Bo di Urbino in seguito ho ottenuto un master in gestione e management dei beni culturali al politecnico di Torino, una volta tornato a Orani ho attuato un progetto con il quale ho iniziato a lavorare al museo.

Qual è la cosa che più la affascina del suo lavoro?

Senza dubbio, il dialogo e l’incontro con ragazzi come voi. È molto gratificante indagare sia le tecniche che i vari punti di partenza della poetica dell’artista Costantino Nivola e vedere un riscontro  da parte vostra. È molto bello interagire con voi e, si spera, farvi arrivare la passione con il racconto a tutto tondo di un grandissimo artista.

Quale meno?

Dover far fronte alla pandemia! Per questo abbiamo potenziato la nostra offerta culturale online, organizzando dei laboratori in modalità DAD rivolgendoci non solo alle scuole ma anche ad un pubblico generico, aprendo proprio delle hall sulle varie piattaforme informatiche free. Abbiamo realizzato lavori simili a quello che state seguendo voi a scuola, la fondazione fornisce gli stessi materiale a disposizione delle persone solo che, per ovvi motivi, siamo stati costretti a chiedere ai partecipanti di portare dei materiali da casa. Nel vostro caso specifico, siamo stati costretti a dividere in gruppi le classi ma siamo riusciti comunque a lavorare in maniera dignitosa.

La risposta del pubblico le sembra essere stata positiva?

Assolutamente si, poi bisognerebbe sentire anche il vostro parere!

Quando si è appassionato in particolare all’arte di Nivola?

S: In realtà, coltivo questa passione da quando sono bambino, avevo una vocazione legata alla creatività. Comunque sono appassionato, in generale, di arte sarda. L’arte del 900 è una dellepagine più belle della storia dell’arte in Sardegna, si pensi, ad esempio, che nasce nei primi di questo secolo una scuola di illustrazione dove i fumettisti sardi si distinguono e pubblicanonelle maggiori testate nazionali. Per quanto riguarda la storia di Nivola, in quanto compaesano in primo luogo, e poi con lo studioho avuto un arricchimento di punti di vista, suggestioni.. Ha indagato tutte le tecniche artistiche e si è confrontato con i piú svariati ambienti culturali, per questo motivo lo trovo davvero un artista straordinario.

Com’è stato lavorare con gli asproniani?

Un onore. Anche solamente passeggiando in questi corridoi, si respira qualcosa di importante, un istituto che nel tempo ha saputo dare delle risposte ad un intero territorio. Grazie tante per il vostro interesse!

SANPA: LUCI E TENEBRE DI SAN PATRIGNANO, recensione di Roberta Soro

Il fine giustifica i mezzi? 

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La nuova serie evento di Netflix è un prodotto tutto italiano, sviluppato partendo da un’idea di Gianluca Neri attraverso la regia di Cosima Spender. La primissima docuserie italiana ad approdare sulla piattaforma di streaming sta riscontrando un successo internazionale scalando ininterrottamente le classifiche di oltre 180 stati. Una vittoria importante per la cinematografia del nostro paese, che, sfruttando l’enorme visibilità del colosso americano, ha voluto fare luce su uno dei casi mediatici più eclatanti della nostra storia, ormai relegato al dimenticatoio.  

“SanPa: Luci e tenebre di San Patrignano” fa il suo esordio il 30 Dicembre 2020, chiudendo l’anno con le voci dei testimoni che raccontano dettagliatamente i primi 15 anni della comunità e l’uomo dietro al miracolo: Vincenzo Muccioli.  

Fondata nel 1978 da quest’ultimo in un podere sui colli della campagna riminese, la comunità di San Patrignano si presenta inizialmente come un paradiso, la definitiva cura al male che stava mettendo in ginocchio l’Italia: l’eroina. I tossicodipendenti vengono accolti a braccia aperte dal vocione profondo di Muccioli, che, considerandoli alla stregua di figli propri, inizia con loro a ristrutturare il possedimento di famiglia, strappandoli alla droga con il lavoro e l’amore. 

Ma non è tutto oro quel che luccica.  Qualche anno dopo l’apertura della comunità iniziano a trapelare voci e denunce riguardo ai metodi del direttore, che sfociano nel cosiddetto “Processo delle catene”: infatti, il bonario padre di famiglia che bacia e abbraccia i suoi ragazzi in diretta tv ha anche un lato d’ombra: i tossicodipendenti venivano incatenati in luoghi bui e sporchi, come la piccionaia o il tino del vino, per evitare che scappassero. Nonostante Muccioli non parli mai di violenza come parte integrante del processo terapeutico, ammette di doversi comportare come un padre che quando necessario “tira due schiaffoni” ai propri figli. 

Ma gli scandali legati a san Patrignano non si concludono qui.  

L’idilliaca tenuta campestre, centro di recupero modello tra splendidi cavalli e cani di razza, deve sottostare ad accuse di truffa, maltrattamenti e per finire omicidio e occultamento di cadavere. 

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Le vicende vengono mostrate in maniera lineare tramite il montaggio di testimonianze, video dell’epoca e immagini provenienti dagli archivi legali, partendo dagli anni d’oro della fondazione per giungere, attraverso il lungo calvario dei processi e della malattia, alla morte di Vincenzo Muccioli. 

L’intento non è però, a parer mio, completamente raggiunto. Nonostante il chiaroscuro di opinioni che si crea attorno al nucleo del racconto, prevalgono spesso gli aspetti negativi e a momenti il tutto appare come una battaglia tra Andrea Muccioli, che continua ancora oggi a difendere il nome di suo padre, e chi critica quest’ultimo. A denunciare la disparità della cronaca è anche l’ex presentatore televisivo Red Ronnie, presente nel cast di SanPa nelle vesti di testimone e grande amico di Vincenzo Muccioli, come del resto era anche la potente famiglia Moratti. 

Effettivamente l’opinione di chi guarda è fortemente influenzata dalle immagini crude e senza filtri delle celle e delle catene, e dalla minore presenza di testimoni favorevoli alla causa rispetto a quelli contrari. Pur senza volerlo dunque, o almeno senza ammetterlo, il documentario sembra fraintendere il senso di una comunità in cui tanti sono stati maltrattati, uno è morto, ma ancora di più sono stati salvati dal baratro e reinseriti in società. 

“Non ho mai sopportato chi diceva che era tutto bene. Non ho mai sopportato neanche chi diceva che era tutto male” 

-Luciano Nigro, Giornalista dell’Unità 

All’epoca dei fatti Luciano Nigro aveva seguito con attenzione il caso Muccioli e ha raccontato la sua esperienza davanti alle telecamere di Netflix. La sua dichiarazione riassume perfettamente il senso delle vicende, e ci porta quindi a chiederci se il mancato equilibrio del racconto sia dovuto all’opinione dei produttori o se sia invece conseguente al riportare una storia torbida e distorta, sfuggita di mano ai suoi stessi protagonisti.  

Il grande interrogativo posto dalla cronaca su San Patrignano, e attorno al quale tutta la struttura del documentario ruota, è la legittimazione dei metodi utilizzati in vista dei risultati ottenuti. Detto in poche parole, quanto il fine possa effettivamente giustificare i mezzi. 

La degenerazione del centro di recupero non può essere sciolta dall’intenso lavoro sociale che esso ha svolto e continua a svolgere ancora oggi sotto la direzione di Andrea Muccioli. Sono proprio gli ex-tossicodipendenti che prendono parte alla serie a mostrarci quanto sia importante una comunità che, seppur con i suoi lati oscuri, abbia davvero fiducia nei suoi ospiti. Tra questi spicca Walter Delogu, autista e fidato collaboratore di Muccioli, che, nonostante le divergenze e il suo ruolo nel processo contro il fondatore, riconosce l’importanza che egli ha avuto nella sua vita e gli sarà eternamente grato per avergliela salvata. Sono in tanti ad essersi liberati dalle catene della droga grazie a San Patrignano, alle sue luci e in alcuni casi anche alle sue ombre, come Paolo Negri, filosofo, e Antonio Boschini, laureato in medicina. 

Dunque SanPa non ci racconta solo l’involuzione della comunità, non si focalizza esclusivamente sulla critica e sulla vita di Muccioli, ma è un mosaico di storie di rinascita e riscatto sociale, raccontato con le lacrime agli occhi da chi trent’anni fa non credeva ci sarebbe stata la luce in fondo al tunnel. 

L’ISOLA CHE NON C’È PIÙ recensione di Amedeo Sale

“L’incredibile storia dell’isola delle rose” è un film del 2020 diretto da Sydney Sibilia, prodotto da Netflix e Groenlandia. L’idea è piuttosto ambiziosa: raccontare la vera storia dell’ingegnere bolognese Giorgio Rosa che nel 1968, sullo sfondo dei moti rivoluzionari, decise di costruire quel mondo migliore per cui milioni di studenti, intellettuali e lavoratori manifestavano. Quest’episodio è una pagina nera per il governo italiano che per vari anni ha tentato di oscurare quanto accaduto.

 

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Rosa nel 1958 ipotizzò di poter costruire un’isola di cemento appena fuori dalle acque territoriali italiane, circa a 11,6 km dalla costa di Rimini, con l’assurdo obiettivo di costituire uno Stato indipendente. La realizzazione richiese ben dieci anni. Venne progettata una piattaforma in cemento di 400 metri quadri che poggiava su un geniale e complesso sistema di tubi cavi che, una volta riempiti d’acqua, si poggiavano sul fondale, fungendo da fondamenta. L’enorme lastra di cemento venne occupata con varie stanze che andavano a formare un vero e proprio edificio. 

 La struttura divenne autosufficiente quando, durante una perforazione, fu scoperta una falda d’acqua dolce a oltre 200 metri di profondità, che la rese finalmente abitabile. “L’isola delle Rose” (sarebbe stato questo il nome ufficiale del futuro Stato indipendente) si trovava nel bel mezzo del nulla, circondata esclusivamente da acqua, dove l’autorità italiana non aveva alcun potere. La folle idea dell’ingegnere attirò presto l’interesse di tutta Rimini e, complice il clima pre-estivo, l’isola delle Rose veniva raggiunta ogni giorno da decine di barche cariche di curiosi turisti. L’afflusso alla piattaforma aumentò esponenzialmente e Rosa iniziò a dotarsi di monete, francobolli e soprattutto una lingua ufficiale: l’esperanto, un antico progetto di lingua universale mai portato a termine. 

L’intensa attività sull’isola iniziò a preoccupare il governo italiano dell’epoca, che sospettava la presenza di traffici illegali e che la piattaforma fosse addirittura un avamposto per potenze straniere. 

Il 1° maggio 1968 Giorgio Rosa autoproclamò lo stato di indipendenza per l’Isola delle Rose in veste di presidente ufficiale. Il governo rispose tempestivamente: poco tempo dopo, infatti, la Repubblica Italiana riuscì a ottenere un blocco navale, impedendo l’accesso alla piattaforma. Il 25 giugno 1968 l’isola venne accerchiata da decine di navi delle forze dell’ordine, che ne presero il possesso. Rosa presentò vari ricorsi in tribunale, tuttavia vennero respinti e la Marina Militare Italiana procedette a collocare gli esplosivi per distruggere definitivamente l’isola. Incredibilmente l’esplosione non riuscì ad affossarla e servì un ulteriore carico per compiere il lavoro. Ciò ribadì ulteriormente la genialità e l’estrema precisione che si celava dietro al progetto di questa struttura. 

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Nonostante sia avvenuta in maniera totalmente pacifica, l’occupazione dell’Isola delle Rose rimane ad oggi l’unica guerra d’invasione commessa dalla Repubblica Italiana. Per scongiurare altri episodi simili, l’ONU aumentò il confine delle acque territoriali da 6 a 12 miglia nautiche in tutto il mondo.  

Il governo italiano ha ritenuto che la vicenda potesse mettere in discussione la propria autorità agli occhi dei cittadini, pertanto ha provveduto a insabbiare l’accaduto facendo passare l’ideale indipendentista di Rosa per un tentativo di privatizzazione del mare.  

Il film nasce proprio dalla necessità di diffondere il più possibile quest’episodio singolare. Nonostante sia parecchio “romanzata” e rivisitata in maniera comica, la pellicola ricostruisce in maniera affidabile il periodo sessantottino, grazie a costumi, ambientazioni e colonna sonora adeguati. L’isola che compare nel film non è stata ricreata al computer, ma è stata costruita fisicamente in enormi piscine a Malta, un processo estremamente impegnativo; tuttavia, il risultato premia queste fatiche con una messa in scena molto realistica.  

Elio Germano interpreta in maniera spiccatamente verosimile l’ingegner Rosa, affiancato da un cast che, sebbene non sia stellare, vanta delle prestazioni più che discrete, come quella di Luca Zingaretti nel ruolo del primo ministro Giovanni Leone, o ancora Matilda De Angelis nel ruolo di Gabriella, la moglie di Rosa. 

Pur non trattandosi di una pietra miliare del cinema, “L’incredibile storia dell’Isola delle Rose” è un film leggero e che trasmette tanta motivazione, ribadendo l’importanza di inseguire i propri sogni, per quanto folli essi siano. Soprattutto fa sì che il sogno di Giorgio Rosa non cada nuovamente nel dimenticatoio. Nonostante lui ci abbia lasciato 3 anni fa, la sua incredibile storia vivrà per molto tempo. 

FEMMINISMO NEL 2021: EVOLUZIONE O INVOLUZIONE? di Giada Manunta

Consapevole della delicatezza dell’argomento e della suscettibilità dilagante che ormai caratterizza il nostro secolo, vorrei condividere con voi un’opinione sul tanto discusso femminismo. Pongo l’accento su “opinione”, ricordando che parlo solo ed unicamente a nome mio, di alcune riflessioni personali in virtù della libertà di espressione e parola che tanto si predica e poco si tollera. Prima però di darsi alla soggettività, un breve riepilogo oggettivo sull’itinere del femminismo.  

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Per Femminismo s’intende quel movimento politico e sociale che, organizzatosi nell’800, mirava alla rivendicazione dei diritti economici, civili e politici delle donne, considerate per natura inferiori rispetto all’uomo. Tuttavia, le idee di cui si fece portatore iniziarono a circolare dal 18° secolo, alimentate dall’Illuminismo e infiammatesi durante la Rivoluzione Francese. In quegli anni si iniziò a discutere sull’istruzione femminile e le donne cominciarono a prendere parte ai movimenti politici. Olympe de Gouges, con la sua Dichiarazione dei diritti della Donna e della Cittadina (1791), testimonia la cosiddetta “preistoria del femminismo”. 

 Dopodiché si possono individuare tre “ondate” del movimento: 

la prima, in pieno Ottocento, che ebbe come protagoniste le suffragiste che reclamavano il diritto di voto, battendosi perlopiù per diritti di natura politica; 

la seconda, compresa tra gli anni Sessanta e Ottanta del Novecento e avente per epicentro l’America del boom economico, si batté per temi sociali, dopo che ci si rese conto che il solo diritto di voto non avrebbe portato all’uguaglianza di genere (si inizia ad affrontare la violenza domestica e non, la contraccezione, la sessualità, il divorzio e il delitto d’onore per dare qualche esempio); 

la terza, avvenuta negli anni Novanta, s’impegnò per raggiungere la parità nel mondo del lavoro, in cui il divario salariale, la difficoltà nel fare carriera e le molestie erano all’ordine del giorno. 

Questo è il Femminismo a cui essere grati e che mi permette di condividere opinioni “pubblicamente” e scegliere il mio futuro. Mi rendo conto che si dovrebbero dedicare molte più parole ad un tema tanto rilevante e importante per ciascuno di noi, dal momento che senza un movimento simile, diventato poi una vera e propria prassi nell’accezione più positiva che possa esistere, la vita quotidiana non sarebbe nemmeno immaginabile.  

Tuttavia, mi preme anche esprimere delle perplessità a riguardo del femminismo odierno che, nella confusione mediatica e “social” soprattutto, parrebbe aver perso la bussola.  

Si sente e si legge spesso di polemiche femministe che rasentano e, ahimè, spesso scadono nell’estremismo.  

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Passando direttamente alle prove, sono recenti i Tweet polemici sul film trasmesso dalla BBC la notte di Santo Stefano, ossia l’intramontabile Grease con John Travolta e Olivia Newton-John. Questo lungometraggio, come tanti altri cult (Via col Vento per esempio), è stato accusato di sessismo, misoginia, omofobia ma non solo… C’è anche chi per la frase “Did she put up a fight?” (letteralmente “Ha opposto resistenza?”) di Summer Nights ha deliberatamente parlato di incitamento allo stupro. Questi spettatori, perlopiù adolescenti, hanno chiesto che il film in questione non venga più trasmesso.  

Un film, un romanzo, una commedia, una canzone parlano dell’epoca in cui vengono creati o in cui sono ambientati e, come lo stesso Van Gogh insegna con “I mangiatori di patate”, devono far trasudare le idee dell’epoca e del soggetto di cui raccontano per essere degni di merito. 

Dunque, si evince automaticamente che certe dinamiche e certi linguaggi siano insindacabili, altrimenti dovremmo cancellare un’intera cultura ab origine: pensiamo solo alle accuse che gli “iperattivisti” rivolgerebbero (e rivolgono purtroppo) ai grandi poemi Omerici, alla Divina Commedia, all’Orlando Furioso di Ariosto o a tutte le poesie in cui i vari autori di tutti secoli danno sfogo ai propri desideri nei confronti di una donna “illecitamente” (come se davvero il desiderio potesse essere consenziente e riguardasse solo e unicamente il sesso maschile!). 

Altrettanto estremizzate sono le varie questioni linguistiche, spesso ovviate con un *. L’inclusività linguistica è certamente importante, ma superato un certo limite si rischia di renderla motivo di scherno. 

Il femminismo oggi trova avversione perché spesso sfocia in un tentativo di emulazione, talvolta incoerente, del Femminismo vero e proprio che determinò effettivamente una rinascita della Donna. Quello odierno è uno strumento per esporre forme in vetrina al grido di “Il corpo è mio, ne faccio quel che voglio!” o ancora “Il mio corpo non è fatto per essere guardato o desiderato dagli altri!”. È una strategia di mercato per vendere prodotti che senza la scritta “GIRL POWER” resterebbero invenduti come tanti altri. Per molti è una moda che, pur di ottenere visibilità e collaborazioni, si è disposti a seguire. 

Non contiamo che, oltre a chi sacrifica decoro, c’è anche chi sacrifica coerenza credendo la donna superiore all’uomo e andando a ledere le fondamenta del credo Femminista che sostengono l’uguaglianza tra i generi.  

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Attenzione però, non si faccia di tutta l’erba un fascio, fortunatamente c’è sempre una minoranza che conserva quei Valori originali e mi auguro che col tempo le mode passino e le menti lavorino. Non mi aspetto un mondo perfetto, sarebbe utopico immaginare una vita totalmente all’insegna dell’uguaglianza e del pacifico soddisfacimento dei bisogni, poiché siamo sempre una specie animale e da animali ragioneremo e agiremo sempre. In ogni caso, la speranza è quella di poter parlare tendenzialmente di evoluzione e non di involuzione come invece è stato fatto nelle righe precedenti. 

Ribadendo che è un semplice pensiero personale e che come il mio, ce ne saranno tanti altri, non meno importanti o interessanti, vi invito a condividerli qualora aveste piacere sulla pagina Instagram dell’Agorà. (@agora.asproni)

IL CASO JULIAN ASSANGE: Dalle prime rivelazioni di WikiLeaks al processo di Matteo Podda

Julian Assange non sarà estradato negli Stati Uniti, dove lo attendevano ben 18 capi d’accusa per un totale di 175 anni di reclusione. Questa la decisione del giudice Vanessa Baraitser, risalente a pochi giorni fa e giustificata dal rischio del suo suicidio in caso di detenzione negli USA, date le sue condizioni psichiche instabili. Ma riprendiamo dall’inizio, chi è Julian Assange e cosa lo ha portato a rischiare quasi due secoli di detenzione? 

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Risale al 2006 la fondazione, da parte del giornalista australiano, di WikiLeaks, una piattaforma online no-profit atta a ricevere e pubblicare sul proprio sito web informazioni segrete dei governi di tutto il mondo, avente come obiettivo la messa al vaglio della giustizia e dell’etica delle azioni degli Stati, nell’auspicio di un rafforzamento della democrazia.

Fin dal momento della sua nascita WikiLeaks si rivela una vera e propria stanza degli orrori: tante le nazioni le cui notizie sono divulgate dalla piattaforma, ma certamente quelli maggiormente coinvolti risultano gli Stati Uniti d’America. Grazie all’appoggio della militare statunitense Chelsea Manning, il sito australiano pubblica, infatti, circa 700 mila documenti top secret contenenti informazioni sulla guerra statunitense in Afghanistan, con riferimento all’uccisione di numerosi civili da parte delle truppe statunitensi.  

L’odissea giuridica di Assange non si deve però alle sue pubblicazioni, bensì a due accuse per stupro rivoltegli da due donne svedesi. Nel 2010 venne divulgato un mandato di cattura europeo in risposta al quale il giornalista, pur dichiarandosi innocente, si consegnò alle autorità britanniche. Dopo nove giorni di detenzione gli venne concessa la libertà vigilata, ma, avendo la Svezia intavolato le carte per procedere all’estradizione e poiché il giornalista temeva di poter essere poi estradato dalla penisola scandinava fino all’America, questi decise di rifugiarsi nell’ambasciata ecuadoriana. 

Assange ne rimase ospite per 7 lunghi anni, fino al 2019, fino a quando il nuovo presidente ecuadoriano, Lenin Moreno, lo espulse dall’ambasciata e permise così alla polizia britannica di procedere alla cattura, poiché ritenne il giornalista reo di aver violato le condizioni dell’asilo politico. La sua presunta colpa era l’aver pubblicato nel 2016 notizie su come i dirigenti del Partito Democratico USA avessero tramato contro il popolare candidato della sinistra, Bernie Sanders, affinché Hillary Clinton vincesse le primarie. Pochi mesi dopo l’australiano fu così condannato a 50 settimane di prigione per aver violato le condizioni della libertà vigilata rifugiandosi nell’ambasciata dell’Ecuador.

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Arresto di Julian Assange

Dopo la condanna arrivò l’intervento degli USA, che richiesero all’Inghilterra l’estradizione; intervenne allora l’ONU tramite il relatore speciale sulla tortura Nils Melzer, che visitò il fondatore di WikiLeaks in carcere e affermò che le sue condizioni presentavano “tutti i sintomi della tortura psicologica” e che la sua vita era in pericolo. 

Dunque, nel febbraio dell’anno scorso iniziò il processo per l’estradizione e la bilancia pareva pendere a favore degli USA, con la giudice che non riconosceva il carattere giornalistico delle attività di Assange, considerandole potenzialmente criminali, e non voleva accettare la tesi della difesa secondo cui Assange rischiava “un processo politico” negli Stati Uniti. L’unico punto in cui la giudice concordò con la difesa fu tuttavia sufficiente a permettere la negazione dell’estradizione dell’uomo: infatti, avendo appurato che negli USA i detenuti per reati legati alla sicurezza nazionale vengono sistematicamente sottoposti a misure particolarmente severe quali isolamento stretto e accesso molto limitato alle visite e al telefono, questa stabilì che l’estradizione avrebbe messo a rischio la salute mentale del giornalista. 

Dalla vicenda emerge un problema: la mancata estradizione di Assange non si configura come una vittoria della libertà di stampa, in quanto il giudice stesso si trova d’accordo con l’accusa nel ritenere l’australiano perseguibile per la pubblicazione dei documenti. Di conseguenza risulta opportuno porsi questa questione: fino a che punto è veramente concessa la libertà di stampa? Può uno stato nascondere gli e/orrori commessi con la parola “top secret” per poi non assumersene la responsabilità nel momento in cui questi vengono svelati, andando addirittura a colpevolizzare colui che rende queste faccende pubbliche?  

È giusto trasgredire le leggi dello stato in virtù della giustizia morale? 

Pensieri sotto la doccia: L’ANSIA di Maria Antonietta Balvis e Marta Seddone

 Ciao a tutti!

Questo, più che un articolo informativo, sarà, in qualche modo, una riflessione, scaturita quando abbiamo colto la presenza di una condizione molto frequente soprattutto nella nostra generazione: l’ansia. Chiariamo subito che sarà trattato sia il disturbo dell’ansia, sia quella sensazione che tutti noi conosciamo, avendone avuto almeno un momento nella nostra vita, a causa della quale ci siamo sentiti oppressi, schiacciati dal peso di qualcosa che non ci ha dato tregua finché, quasi magicamente, è sparito. Non descriveremo cosa sia l’ansia in sé: siamo sicure, infatti, che lo sapete tutti e ognuno la ricollega ad una circostanza personale e la vive in maniera diversa. Vogliamo piuttosto rivolgerci ad un insieme più grande, a noi adolescenti. 

Da sempre l’adolescenza è etichettata come il periodo in cui si è più ribelli, in cui si fanno esperienze irripetibili, in cui iniziamo a vedere ciò che ci circonda da un’altra prospettiva e sicuramente è tutto vero, per certi versi. Sempre, tuttavia, ci si dimentica di aggiungere alla descrizione una componente fondamentale che ci accompagna in questo percorso di transizione verso l’età adulta, ed è proprio l’ansia. Come dicevamo in precedenza, non c’è qualcosa di universale che causi questo senso di oppressione, però ci siamo rese conto di quante persone che ci circondano ne soffrano, in forme più o meno gravi o preoccupanti. Purtroppo, così come è diffuso il fenomeno, in maniera inversamente proporzionale si fa ricorso alla terapia. Tant’è che, sicuramente, molte persone che conosciamo soffrono d’ansia, ma difficilmente si sono mai rivolte ad uno psicologo… 

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Questo rifiuto perentorio di volersi affidare a qualcuno che avrebbe tutti i mezzi per poterci aiutare, a nostro parere, va imputato innanzitutto ad un motivo: la pudicizia nei confronti delle persone che ci conoscono e, ancor più, nei confronti dei propri genitori. Infatti tante persone, chi per pura vergogna, chi per orgoglio, chi per evitare di dare preoccupazioni ai famigliari, preferisce direttamente non esporsi. Questo atteggiamento, oltre ad essere dovuto alla poca informazione riguardo l’argomento, è spesso preso sotto gamba perché non si conoscono i possibili disturbi (in gran parte molto seri) in cui, se ignorata, potrebbe sfociare l’ansia. Siamo convinte che noi ragazzi tendiamo ad indossare sempre una sorta di maschera e abbiamo così tante paure, insicurezze e timori che tentiamo di non mostrarne neanche uno. La paura di essere etichettati come “diversi” e per questo non essere accettati, di un presente o un futuro da soli, di essere scartati dalla società poiché non sono incarnati gli standard che essa ci propina quotidianamente: tutte queste sono caratteristiche comuni più o meno a tutti i giovani del ventunesimo secolo, ma vengono represse, spinte e schiacciate dentro, in modo da non farle uscire per dimostrare che non abbiamo paura, che possiamo farcela da soli anche se, a volte, tutto ciò risulta più difficile del previsto. Probabilmente se qualcuno di voi soffre o ha sofferto d’ansia ha pensato “Non ce la faccio da solo, ma lo sono”; avrete pensato che le vite degli altri sembrano così semplici, così piene, così belle rispetto alla vostra; vi sarete sentiti incompresi, confusi, impauriti: vi garantiamo che non è così. Siamo tutti preda di pressioni sociali, di difficoltà che ci appaiono insormontabili ma che, in realtà, siamo in grado non solo di superare, ma spesso addirittura di poter controllare. Tante cose nella vita potrebbero essere motivo di preoccupazione per noi, potrebbero sembrarci dei giganti nei nostri confronti: talmente alti, che ci sentiremo piccoli e fragili. 

In compenso, però, abbiamo una voce forte e tanto da donare a questo mondo.   

Non abbiamo pensato a questo articolo per dirvi qualcosa di nuovo, non abbiamo la presunzione di sapere cosa stia succedendo nelle vostre vite né di essere in grado di aiutarvi. Speriamo soltanto di avervi fatto sentire, almeno per un momento, meno soli. 

“TRUMP: TRA CHIAMATE INTERCETTATE E RIVOLTE A CAPITOL HILL” di Stefano Di Maio

Ciò di cui voglio occuparmi questo mese sono le registrazioni delle telefonate tra il Presidente Trump e il segretario di Stato della Georgia, Brad Raffensperger, pubblicate i primi giorni dell’anno dal Washington Post.

«Brad, riusciamo a trovare 11.780 voti? Sono quelli che ci mancano per vincere le elezioni in Georgia», «No signor Presidente non ci sono state irregolarità».  In sostanza Trump, gli chiede di trovare il modo per ribaltare il risultato elettorale del 3 novembre, quando Joe Biden la spuntò più o meno con quello stesso margine. L’effetto delle dichiarazioni è stato devastante: una telefonata forse ancora più grave di quella con il neo presidente ucraino Volodymyr Zelensky («riapri l’indagine sui Biden o niente aiuti militari» che portò all’impeachment di Trump) per i repubblicani che si stavano preparando a contestare l’esito delle elezioni il 6 gennaio al Congresso; ma forse, come noi, neanche gli stessi membri del partito rosso si aspettavano che tutto potesse precipitare in così poco tempo fino a giungere ai drammatici scontri degli scorsi giorni a Capitol Hill. Il risultato degli scontri non ha fatto altro che alimentare tensioni tra Il presidente uscente e i suoi stessi sostenitori nonché con i membri del partito di cui è leader.

Sono passate poche ore dal video in cui Donald Trump si dice «indignato per la violenza, l’illegalità e il caos» dell’assalto al Congresso quando, sul social che ha accolto l’estrema destra, Parler, il leader dei “Proud Boys” Enrique Tarrio dà voce alla delusione di molti: «Ha appena detto che i patrioti che hanno preso il Campidoglio la pagheranno. Smettetela di pensare che tutto dipenda da lui. Dipende da TE, da me, da tutti noi in questo Paese e con le nostre libertà. Non fate le pecore. Pensate con la vostra testa. Trump ha appiccato il fuoco e poi se n’è andato, lasciandoci a gestire i resti carbonizzati»: Trump li ha abbandonati nel mezzo di una battaglia che lui stesso li aveva incitati a combattere.

Ritratto ufficiale del 45º Presidente degli Stati Uniti d’America, Donald J. Trump

Infatti, lo stesso partito repubblicano, come detto in precedenza, sta considerando seriamente di agire contro Donald Trump. I funzionari del partito stanno valutando azioni drastiche per fermare il delirio del presidente. Fra le misure prese in considerazione ci sono una censura, l’impeachment, e il 25esimo emendamento, misura quest’ultima «a lungo considerata soltanto una fantasia liberale» ma che sta avanzando nelle conversazioni interne alla Casa Bianca e al partito conservatore: Trump sarebbe giudicato incapace di svolgere le sue mansioni, e al suo posto sarebbe promosso il vice Mike Pence che porterebbe a termine gli ultimi giorni del mandato. Al 25esimo emendamento ha fatto riferimento anche il leader democratico al Senato, Chuck Schumer, che ha chiesto al vicepresidente Pence e al resto dell’amministrazione di agire subito affinché Trump «non resti in carica un solo giorno in più» essendo responsabile «dell’insurrezione da lui incitata» e il modo più veloce per farlo è appunto il ricorso alla procedura di destituzione d’ufficio.

Gli atteggiamenti del 45esimo presidente, a tratti paranoici e pericolosi per la pubblica sicurezza, spaventano anche la speaker democratica della Camera, Nancy Pelosi, che ha telefonato al generale Mark Milley, capo di Stato maggiore, cioè il più alto grado operativo delle forze armate statunitensi. Lo ha fatto sapere lei stessa con una lettera indirizzata a tutti i deputati democratici: «Abbiamo discusso sulle precauzioni disponibili per evitare che un presidente instabile possa lanciare iniziative militari ostili o accedere ai codici per ordinare un attacco nucleare. La situazione di questo presidente fuori controllo non potrebbe essere più pericolosa e noi dobbiamo fare tutto ciò che è in nostro potere per proteggere il popolo americano dal suo assalto scomposto al nostro Paese e alla democrazia». Ecco, quindi, un altro fosco scenario.

Si conclude, dunque, con un’ultima dichiarazione su Twitter («Non andrò all’Inaugurazione del 20 gennaio»), l’era di uno dei più discussi presidenti degli Stati uniti di tutti i tempi, che in questi ultimi giorni del suo mandato è riuscito a perdere le uniche due cose che in questi 5 anni di carica non lo avevano mai abbandonato: il favore del suo partito e i cittadini che avevano riposto in lui la speranza in un’America migliore.

“LA MASCOLINITÀ TOSSICA” di Chiara Mazzette e Claudia Tuveri

Cosa rende un uomo tale? La sua identità di genere? No, abbiamo superato da tempo queste definizioni fantascientifiche. Ciò che rende un uomo “uomo” è la forza bruta, i muscoli, il puzzo di sudore e i lavori fisicamente provanti. Per questo i “troll” su Instagram si permettono di appellare Fedez con slur omofobi perché decide di smaltarsi le unghie.

Stereotipi come questi nascono da un qualcosa di più radicato, che a sua volta è tratto da atti di misoginia e omofobia e che oggi indichiamo con il termine machismo.

Ma cosa si intende per “machismo”?

Quando parliamo di mascolinità tossica (o machismo, appunto), facciamo riferimento a un concetto oggetto della psicologia sin dagli anni Ottanta, che descrive un insieme di atteggiamenti, modi e regole culturali che, all’interno di una società patriarcale, etichettano il genere maschile come superiore, violento e non-emotivo.

La tossicità di cui parla il termine è rappresentata dai diversi danni che la mascolinità può provocare alla salute psico-fisica dell’individuo; molti studi hanno infatti riconosciuto che i soggetti che reprimono le proprie emozioni sono più propensi a cadere in depressione (“Che esagerazione, l’uomo è forte!!”).

La mascolinità, a differenza di come molti pensano, può essere diversa da individuo a individuo: la timidezza, la sensibilità o l’emotività sono caratteri psicologici che contraddistinguono una persona (di qualunque genere sia) e che non per questo impediscono a un uomo di essere tale o sono da considerare tratti tipici di una donna.

Per molti questo concetto è l’ennesima invenzione delle femministe che tentano in ogni modo di far passare gli uomini cisgender eterosessuali, i veri oppressi di questa società, come i villain di turno.

Tralasciando per un secondo il sarcasmo, la ragione di questa avversione dell’uomo nei confronti di tutto ciò che non è “virile” è dovuta a una serie di atteggiamenti che vengono inculcati nelle menti dei bambini sin dall’infanzia: non giocare con le bambole, il trucco è per le femmine, i ragazzi non piangono.

Qual è la conseguenza? Un mondo in cui i maschi (in generale) si sentono inadatti se non amano gli sport (“quelli veri, mica il pattinaggio artistico con i suoi completini aderenti di strass!”), se non si sentono di fare il primo passo o se esprimono apertamente le proprie emozioni.

Fortunatamente alcune icone del mondo dello spettacolo si muovono contro lo stereotipo del “macho” come Achille Lauro, il David Bowie della Generazione Z, che se non si è curato dei commenti altrui quando, a Sanremo 2020, ci ha illuminati con la sua luccicante tutina di Gucci; o come i Queen che, nell’iconico video di “I want to break free”, tra tacchi e parrucche bionde, hanno trionfato nel parodiare la soap opera “Coronation Street”.

In qualità di primo uomo da solo in copertina in 128 anni di storia del magazine “Vogue America”, Harry Styles non ha di certo deluso le aspettative, indossando con grande carisma un abito direttamente dalla Gucci’s Fall ’20 Runway.

Anytime you’re putting barriers up in your life, you’re limiting yourself

“Ogni volta in cui ti costruisci delle barriere nella tua vita, ti stai limitando” dice Styles ammettendo di ammirare spesso i vestiti “da donna” e ispirando i suoi outfit sgargianti a showman come Elvis, Prince o Elton John.

Confinarsi in un canone limita esponenzialmente le nostre possibilità. Chiudendoci nella gabbia di “maschio” o “femmina” uccidiamo la nostra espressività.

Oggi le diverse sfumature della mascolinità sono molto più accettate che in passato, e devo ammettere che per me essere vulnerabile coincide spesso con l’essere a mio agio nel mio corpo. Succede attraverso la musica, la scrittura e le confidenze con gli amici, ed è qualcosa che faccio molto spesso, ormai

harry styles

Quello che hai detto è estremamente bello e d’ispirazione e si lega in un certo modo a quello che dicevamo sul sentirsi a proprio agio nel caos e sul creare nella follia.”

Replica Timothée Chalamet in un’intervista per i-D Magazine e noi non potremmo essere più d’accordo.

“LA DISINFORMAZIONE: COME SI ARRIVA ALLE FAKE NEWS” di Ashlinn Mai Tupponi

In un periodo storico e politico dove l’informazione, la conoscenza e la consapevolezza di ciò che ci circonda sono fondamentali, bisogna imparare a riconoscere e distinguere le varie notizie.

In un’era fortemente legata alla tecnologia, la quantità di informazioni raggiungibile tramite un click è senza limiti; questo prescinde però dall’affidabilità delle fonti: un’informazione errata potrebbe causare, infatti, panico e caos.

Anni fa l’accesso a così tante piattaforme d’informazione era impensabile: le notizie erano generalizzate e ad ampio raggio, le scelte erano limitate ad un paio di giornali e tre o quattro reti televisive, dove i fidati presentatori comunicavano le notizie agli stessi orari attendibili ogni giorno.

Il problema di questo sistema di comunicazione si rese ben presto evidente, soprattutto con il diffondersi dei mass media: sebbene fosse noto che in paesi autoritari le notizie venivano censurate e controllate, vari scandali portarono alla luce che anche molti governi democratici fuorviavano i cittadini spettatori/lettori, spesso con l’aiuto dei media (si pensi al “Watergate”, all’ “Irangate”, alla Crisi dei missili di Cuba o alle numerose corruzioni e informazioni venute a galla tramite WikiLeaks).

La rivelazione di guerre segrete, assassinii umbratili e corruzioni politiche compromisero la fede pubblica nelle narrative ufficiali presentate dalle sorgenti principali.

Questo crollo e smantellamento della fiducia riposta nei servizi d’informazione classici portò a giornali alternativi, a programmi radio, podcast, blog, che alla pari con le maggiori istituzioni giornalistiche trattavano eventi e avvenimenti tramite diverse prospettive.

Ultimamente poi, l’avvento di Internet ha moltiplicato il numero di informazioni e punti di vista tramite i social media, rendendo ogni cittadino un possibile reporter; ma se tutti sono giornalisti, allora non lo è nessuno, e molte fonti potrebbero essere discordanti non solo sulle opinioni, ma sugli eventi stessi: ciò che per qualcuno può essere una rivolta, altri potrebbero definirla manifestazione, altri ancora insurrezione. 

L’apparente minima differenza tra questi termini porta a quella che chiamiamo disinformazione: questa si traduce in un’informazione ampiamente diffusa e considerata veritiera ma inesatta. 

Nella lingua inglese esistono due parole traducibili all’italiano con “disinformazione”: “disinformation” e “misinformation”; queste parole così simili e spesso intercambiabili si distinguono dalla presenza di un fattore nell’informazione sbagliata: l’intento.

Misinformation” è quella disinformazione diffusa a prescindere da intenzioni fuorvianti, mentre “Disinformation” si riferisce a quelle notizie scorrette diffuse consapevolmente.

Dunque, considerando quella che chiamiamo disinformazione una commistione tra una divulgazione intenzionale e una diffusione involontaria, possiamo risalire alle cause e ai fattori principali di questo fenomeno.

Per quanto semplice e banale possa sembrare, spesso la disinformazione nasce da un equivoco: una parola, una nozione, un lemma di espressione verbale interpretabile in più modi possono portare ad una rielaborazione della storia intera tramite un modello interpretativo fortemente influenzato dall’accezione di quella parola equivoca.

Si pensi agli studi scientifici, ai libri, alle tesi in lingua straniera: molte lingue possiedono termini intraducibili o inesprimibili in altre. Spesso nella traduzione si va a perdere il significato originale di una parola, cambiando completamente la chiave di lettura dell’intero contenuto.

Deduzioni e ipotesi personali, opinioni e giudizi vanno poi a modificare l’informazione stessa che, trasmessa di persona in persona in un gioco di “passaparola”, porta alla disinformazione a causa della mancanza di un filtraggio delle nozioni di influenza soggettiva.

Inoltre, in quella che possiamo considerare pigrizia o abulia, il nostro cervello è naturalmente predisposto a semplificare informazioni per facilitarne la comprensione, creando un’intelligibilità narrativa che spesso però comporta l’esclusione di informazioni “minori”. 

La disinformazione nasce quindi da un errore umano, a eccezione di quando si ha invece un chiaro intento propagandistico: in politica ad esempio si è soliti usare consapevolmente una distorsione o un offuscamento dei fatti per mettere in risalto alcuni aspetti di una persona o di un partito; questo metodo viene usato anche nelle televendite o nella pubblicizzazione di prodotti le cui qualità vengono intenzionalmente sottolineate ed esaltate fino a parlare di “effetti miracolosi” (come sieri per la ricrescita dei capelli, pastiglie per la perdita di peso o cingomme per smettere di fumare).

Il metodo migliore per non cadere vittime della disinformazione, seppur difficile, si rifà ad azioni come cercare le sorgenti dirette, distinguere i fatti dalle opinioni, evitare fonti anonime, liberarsi da pregiudizi e mantenere un sano scetticismo: sta a noi e alla nostra coscienza il compito di arrivare ad un discernimento delle informazioni per la formazione di un pensiero critico e consapevole.

“IL TEATRO NOH” di Irene Biggio

Sta per finire il quadrimestre, le interrogazioni si accumulano e ora più che mai, abbagliata come sono dal computer, mi sento lontana dal mondo che in teoria sto cercando di studiare.

Qualche giorno fa, durante la mia decima “pausa dallo studio”, nella home page di YouTube mi sono imbattuta in un video intitolato “The spirit of Noh”, un breve documentario sulla più antica forma di teatro giapponese ancora praticata.

Stanca di aver a che fare con le figlie viziate del balzachiano Père Goriot (povero Cristo!), mi sono lasciata incuriosire.

Ho visto il video e poi, perché no?! Ne ho visto un altro e un altro ancora…

Mi si è aperto un mondo nobile, quasi ipnotico, di una spiritualità solenne, di una forza elegante e di una delicatezza sospirata.

Il teatro Noh, che nacque nel 14esimo secolo con il grande Zeami Motokiyo, si concentra sulla profondità delle emozioni più che sulla storia narrata e, per quanto riguarda la musica, più sul ritmo che sulla melodia.

Noh significa “talento” e ogni attore cerca di raggiungere lo Yugen ossia un’eleganza trascendentale, la bellezza della sofferenza umana che traspare, come disse Zeami, specialmente nelle delicate emozioni di una giovane donna.

L’aspetto più intrigante sono, però, le maschere che lo shite, l’attore protagonista, indossa.

Queste infatti paiono inespressive, vuote: sta all’attore riempirle e far sì che siano uno strumento in grado di trasmettere sentimenti profondi e universali. L’ effetto ha un impatto tale che, a confronto, il volto umano sembra incapace di trasmettere l’emozione vera, rendendola superficiale, direi quasi troppo umana, troppo fisica. Esistono molte tipologie di maschere che rappresentano dei caratteri generali e possono essere utilizzate per svariati ruoli. Altre sono create per specifici personaggi storici come la maschera Komachi che rappresenta l’anziana poetessa Ono-no-Komachi vissuta nel nono secolo dell’era di Heian.

Sono particolarmente interessanti le maschere dei personaggi femminili come:

  • Ko-omote, la giovane donna dai tratti nobiliari;
  • Yase-anna, anima che soffre in purgatorio perché incapace di lasciarsi alle spalle il mondo umano;
  • Hannya, maschera di un demone dalle lunghe corna e dal ghigno malevolo, frutto della trasformazione di una donna ossessiva, subdola e estremamente gelosa in amore.
Maschera “Ko-omote
Maschera “Yase-anna
Maschera “Hannya

Addirittura nei matrimoni tradizionali viene indossato dalle spose lo Tsunakakushi, copricapo il cui nome tradotto significa letteralmente “copri corna”, per nascondere, per l’appunto, le corna di gelosia e smorzare l’ego.

I personaggi femminili vengono interpretati da uomini che non modulano il proprio tono per renderlo più femminile ma cantano con la propria voce, come se attraverso la maschera il canto perdesse genere e trasmettesse solo il sentimento.

Di solito lo shite indossa una maschera per tutto il primo atto e poi nel secondo la cambia con una che rivela la vera natura del personaggio.

Sta a lui scegliere la propria maschera: prima di entrare in scena la osserva, ne coglie l’intensità e poi la avvicina al volto sino a farla aderire completamente: si può considerare ora come una seconda pelle. Poi l’attore si osserva allo specchio, assorbe la sua immagine e diviene il personaggio.

Lo shite canta con il coro, balla al ritmo dei tamburi e dietro ai dorati iridi, sotto il voluminoso costume, c’è il sentimento puro, un soffio di animo che vibra attraverso la maschera per poi raggiungere il mondo terrestre.

“IL MADE IN ITALY” Editoriale di Marco Tupponi

Con l’espressione “Made in Italy” si indicano, ufficialmente, tutti quei beni che sono progettati, ideati e disegnati in Italia, anche se industrialmente prodotti altrove. Generalmente, però, in termini meno tecnici, essa viene utilizzata per identificare prodotti dell’industria italiana che presentano delle caratteristiche generali comuni: l’alto livello qualitativo della materia prima impiegata, lo stile raffinato, l’innovazione, la cura dei dettagli, la fantasia delle soluzioni adottate e la capacità di durare nel tempo. In particolar modo, ci si riferisce prevalentemente a prodotti inerenti ai settori dell’abbigliamento, dell’arredamento, della meccanica, della bigiotteria, dell’industria cinematografica e agroalimentare, dell’argenteria e della pelletteria. Si tratta, dunque, di un vero e proprio marchio applicato su più ambiti, che, tuttavia, non è registrato: ciò vuol dire che nessun ente lo gestisce ufficialmente e che, dunque, nessuno può imporre ad altri enti produttori di non plagiarlo e di differenziarsi dalla sua originalità.

Senza dubbio il Made in Italy è famoso nel mondo, ma quanti prodotti lo sono veramente?

Stando ai dati della Coldiretti (riferiti al secondo decennio del ventunesimo secolo), i prodotti venduti all’estero come italiani sono falsi per i due terzi e, rispetto ai decenni precedenti, sono cresciuti circa del 70%: sfruttando il cosiddetto “Italian sounding” (la sonorità italiana) le merci estere presentano spesso simboli, nomi o parole che rimandano alla Penisola (come “Contadina, Roma tomatoes”, con cui si vendono dei presunti pomodori di provenienza capitolina). Peraltro, oltre ad evitare questi (imbarazzanti) tentativi di plagio, se il marchio del Made in Italy fosse registrato il suo valore sarebbe di circa 100 miliardi di dollari.

“Allora che cosa costa registrare un marchio? Ormai lo fanno tutti!”

Ahimè non è tutto così facile: supponiamo che, dall’altra parte del mondo, un imprenditore decida, pur essendo registrato il marchio Made in Italy, di vendere un prodotto dalla parvenza italiana ma che è in realtà “Made in Atlantide”: se il consumatore non dovesse vedere la scritta in cui si indica la provenienza del prodotto stesso (che strategicamente può essere riportata in piccolo) e che acquisti dunque il suddetto bene, non porterà un guadagno al marchio registrato ma all’imprenditore che, furbescamente, ha messo sul mercato un Made in Italy fasullo.

Un altro aspetto da non sottovalutare è quello legato all’immagine del marchio, a prescindere che esso sia registrato o meno. Supponiamo che un altro prodotto di falso Made in Italy sia messo in vendita e sia scadente. In questo caso, l’acquirente rimarrà deluso dalla bassa qualità del prodotto ed eviterà di comprare nuovamente merci provenienti dall’Italia (sebbene quello non lo fosse veramente): dunque, non solo sarà danneggiato il prodotto non-ufficiale, ma anche quello che è realmente Made in Italy, portando, anche in questo caso, ad un guadagno minore.

I paesi in cui i prodotti falsi sono più diffusi, di solito, sono quelli dove la domanda è più alta, cioè USA, Canada, Cina, Norvegia, Australia, Svizzera, Bielorussia, Argentina, Brasile e, soprattutto, Russia. Quest’ultima è, infatti, lo Stato che, al mondo, consuma più prodotti italiani fasulli. Ciò è dovuto ad un provvedimento preso da Vladimir Putin nel 2014, quando lo statista decise di imporre l’embargo nei confronti dell’Italia per alimenti vegetali, carne, pesce e formaggi. La domanda è, perciò, diminuita per i prodotti ufficialmente Made in Italy, ma non per quelli falsi, in cui è aumentata esponenzialmente (come è cresciuto, al contempo, il numero di ristoranti italiani, o simili).

Se, da un lato, ciò può renderci orgogliosi (poiché siamo visti globalmente come dei modelli da imitare), allo stesso tempo danneggia la nostra economia.

Cosa possiamo fare?

Niente, non direttamente almeno. Nemmeno io che scrivo so come la situazione possa risolversi, poiché è un compito che spetta a coloro che sono nei piani alti. Con questo articolo, tuttavia, vorrei mettere in evidenza questo problema, affinché sia noto a più persone possibile e non si continui ad ignorarlo, come (purtroppo) accade tutt’ora.

Ricordiamoci che siamo in piena crisi economica e incentivare la promozione del nostro Prodotto può, certamente, contribuire positivamente al superamento di questa situazione.

THE ENEMY OF MAN IS HIS OWN DECAY di Chiara Mazzette

Il 6 novembre del 2020 i System of a Down, gruppo metal statunitense, ha rilasciato, tra l’esaltazione e la frenesia dei fan, due singoli dopo 15 anni di inattività.

Dopo i loro ultimi due album, Mesmerized e Hypnotized che risalgono al 2005, c’erano infatti stati degli screzi tra i componenti del gruppo dovuti a divergenze creative. Serj Tankian, leader e voce della band, ha dichiarato di non sentirsi più vicino alla loro musica e di aver bisogno di lavorare come solista. Fu lui a chiedere la pausa al resto del gruppo nel 2006.

Nonostante questo lungo silenzio discografico, nel 2020 i SOAD sono finalmente tornati. Hanno “ingoiato” un po’ del loro orgoglio? Hanno ceduto alle disperate richieste dei fan?

Il motivo è molto più profondo: si sono sentiti in dovere di spargere la voce e sensibilizzare riguardo il conflitto interno al proprio Stato, l’Armenia, essendo capaci, tra le poche celebrità provenienti da questo Stato, di poter arrivare ad un pubblico tanto vasto.

Le conseguenze dei bombardamenti in Armenia:
La cattedrale di Susha l’8 Ottobre 2020

Non è nemmeno la prima volta che il gruppo si espone su argomenti simili: anche “P.L.U.C.K.”, brano tratto dall’album d’esordio (intitolato “System of a Down”), e “Holy Mountains”, tratto da “Hypnotized”, affrontano il genocidio armeno.

I due singoli diffusi lo scorso mese, intitolati “Protect The Land” (di cui è stato pubblicato anche un videoclip ufficiale che mostra scene di proteste e combattimenti della popolazione armena) e “Genocidal Humanoidz”, raccontano del conflitto del Nagorno-Karabakh, che si svolse tra il 1992 e il 1994 e che si è ripresentato quest’anno. Il 27 settembre l’Azerbaijan, appoggiato dalla Turchia, ha dichiarato guerra all’Armenia con lo scopo di appropriarsi di questo territorio. L’Armenia, regione proporzionalmente più piccola e povera, ha dunque subìto gli attacchi dell’esercito turco, così come, circa cento anni fa, ha dovuto subire il massacro di 1.5 milioni di cittadini durante il cosiddetto genocidio armeno (nonostante i negazionisti tuttora lo smentiscano).

Perciò i membri del gruppo, Serj Tankian, Daron Malakian, Shavo Odadjian e John Dolmayan, tutti e quattro discendenti di sopravvissuti dell’olocausto armeno, hanno deciso di mettere da parte i diverbi e le differenti opinioni politiche per creare due inni contro questa guerra che temano possa degenerare in un nuovo genocidio.

I ricavati della vendita e dello streaming dei due brani verranno destinati all’Armenia Fund, un’organizzazione umanitaria, non governativa e non politica che si occupa dei civili, degli sfollati, dei giovani e degli anziani protagonisti della diaspora armena.

Nonostante tutto, dunque, i quattro si sono riuniti in favore di un bene più grande, un grande gesto che determinerà la salvezza di moltissime persone, concentrando l’attenzione dei media su un tema spesso e ingiustamente lasciato in secondo piano.

“Guess who’s coming over to dinner?

The genocidal humanoids

Teaching warfare to their children

The bastards that will be destroyed

Guess who’s coming over to dinner?

The genocidal humanoids”

Da: “The genocidal humanoids” dei System Of A Down

INFORMIAMOCI: IL SURRISCALDAMENTO GLOBALE di Ashlinn Mai Tupponi

Che sia scritto sulle testate giornalistiche, citato in programmi televisivi, in qualche post sui social, spiegato nei libri di scienze o anche semplicemente menzionato in una discussione tra amici sul freddo dell’ultimo periodo, il surriscaldamento globale è un tema che diventa sempre più presente al giorno d’oggi, negli ambiti più variegati: nell’agricoltura, col cambiamento dei tempi di semina e di raccolta e quindi del ricevimento dei beni primi fondamentali in certi ceppi dell’industria; con il mutamento delle stagioni estive e invernali che influenza l’economia dei singoli territori, che siano balneari o montuosi; nel meteo; nella salute, con le influenze stagionali spesso prolungate; nella flora e nella fauna con oltre 31.000 specie in via di estinzione, che variano da quelle più sconosciute alle più comuni, come quelle che comprendono lupi, gorilla, orsi, tigri, panda.

Il surriscaldamento globale è noto per essere una conseguenza dell’attività umana, in particolare l’eccessivo sfruttamento dei combustibili fossili e le sempre crescenti attività di deforestazione sono responsabili dell’emissione di elevate quantità di anidride carbonica nell’atmosfera, considerata uno dei principali gas che causano il surriscaldamento globale stesso. È importante tenere conto però che la colpa principale non può ricadere sul singolo cittadino, perché i maggiori produttori di anidride carbonica sono le grosse corporazioni.

Mentre il clima terrestre si è riscaldato, un nuovo modello di eventi meteorologici più frequenti e più intensi si è manifestato in tutto il mondo. Gli scienziati identificano questi estremi fenomeni in base agli archivi storici riguardanti il meteo in una particolare regione; considerano, dunque, “estremi” quegli eventi che producono un livello inusualmente alto o basso di pioggia, neve, calore, vento o altri effetti. Solitamente questi fenomeni sono considerati estremi se sono diversi dal 90%-95% di quelli simili avvenuti precedentemente nello stesso territorio.

Le stagioni, così come le conosciamo, esistono perché l’asse di rotazione della Terra attorno al Sole è leggermente inclinato di 23,5°; d’inverno, il nostro emisfero è inclinato lontano dal Sole, il che riduce la quantità di energia che riceviamo e rende la temperatura più fredda; d’estate invece, il nostro emisfero è inclinato verso il Sole, il che ci dà più energia e rende la temperatura più calda.

Il riscaldamento globale non ha alcun effetto sull’inclinazione dell’asse rotatorio, anche se effettivamente il peso dell’acqua prodotta dallo scioglimento dei ghiacci in Islanda e in Antartide ha causato un lieve sbilanciamento dell’asse.

Questo vuol dire che non avremo più stagioni?

Certo che no, la Terra sarà comunque inclinata e le stagioni continueranno a esistere nonostante il riscaldamento globale, saranno però diverse rispetto al passato, già a partire dalla temperatura: tutte le stagioni, anche l’inverno, stanno diventando gradualmente più calde: quello che noi potremmo considerare un inverno gelido oggi, qualche decennio fa era un semplice inverno; inoltre il periodo estivo sembra star arrivando in anticipo e durare più a lungo, le estati sono più torride, con ondate di calore più forti e più lunghe.

Il riscaldamento globale contribuisce quindi all’intensità delle ondate di calore aumentando le possibilità di giornate e notti molto calde.

Il surriscaldamento dell’aria incrementa anche l’evaporazione, che può peggiorare a sua volta la siccità, il che porta alla creazione di campi e foreste aridi, che tendono a prendere fuoco più facilmente, e all’aumento delle temperature, che causano una stagione degli incendi più lunga. Il riscaldamento globale aumenta anche il vapore acqueo nell’atmosfera, che può portare a piogge intense e tempeste di neve più frequenti.

Un’atmosfera più calda e più umida sopra gli oceani rende probabile che gli uragani più forti saranno ancora più intensi, produrranno più precipitazioni e forse saranno più grandi; inoltre, anche se non vi è ancora l’assoluta certezza, gli scienziati suppongono che tale aumento delle temperature possa influenzare anche il numero annuo degli uragani stessi. Inoltre, il riscaldamento globale provoca l’innalzamento del livello del mare, che aumenta sia le precipitazioni sia la quantità di acqua marina, spinta a riva durante le tempeste costiere; entrambi gli incrementi potrebbero provocare inondazioni distruttive.

Comprendere gli impatti del riscaldamento globale sulle condizioni meteorologiche estreme è importante perché può aiutare a guidare le scelte sulla gestione dei rischi: per esempio, se una comunità sapesse che, quella che prima veniva considerata un’inondazione che aveva in un anno una probabilità su 500 di avvenire si è trasformata in una che ha 1 probabilità su 100 di avvenire in un anno, allora potrebbe compiere delle scelte diverse riguardo cosa e dove si può costruire, lavorare, piantare e curare campi, oppure si potrebbero costruire i cosiddetti muri alluvionali, com’è successo in varie zone particolarmente devastate da alluvioni (es. Le Filippine, New Orleans, Irlanda). È importante anche per acquisire maggiore sensibilità e consapevolezza riguardo un argomento sottovalutato e congedato come falso allarmismo.

LA MARIJUANA SMETTE DI UCCIDERE di Roberta Soro e Amedeo Sale

2 dicembre 2020, l’Organizzazione delle Nazioni Unite decide finalmente di mettere mano alle regolamentazioni sulle droghe sancite nel 1961. Dal 1961, infatti, la Cannabis si trovava nella IV tabella per pericolosità, insieme a oppiacei come l’eroina. Da così tanto tempo una pianta con efficaci proprietà mediche e un effetto psicoattivo marginale e poco assuefacente era collocata affianco a una delle droghe più terribili di sempre, la falce nera di intere generazioni. Ma il 2 dicembre 2020 il mondo ha deciso di fare un passo avanti.

Il problema è stato presentato dall’OMS, con la proposta di apportare delle modifiche alle norme su THC, derivati e preparati sintetici. Inizialmente queste indicazioni sono state sottoposte al vaglio della Commissione Europea che, discostandosi da alcuni dei contenuti dell’offerta, ha rimandato la decisione alla sessione dell’Onu di inizio dicembre. Questa, si è conclusa con l’approvazione del depennamento della Cannabis dalla IV tabella, contenente gli stupefacenti nocivi. La scelta non è dovuta a una maggioranza schiacciante, infatti dei 53 stati membri della Commission for Narcotic Drugs solo 27 si sono espressi a favore.

Blu: Paesi a favore della rimozione della Cannabis dalla tabella ONU degli stupefacenti
Rosa: Paesi contro la rimozione
Giallo: Paesi astenuti

Tuttavia, la deliberazione dell’Onu non è vincolante e non avrà risvolti immediati, infatti i singoli Stati si riservano la possibilità di accettare o meno queste condizioni. Fa però ben sperare la tendenza dei paesi membri a seguire le linee guida internazionali e ciò potrebbe anche comportare un cambio di rotta nei più convinti sostenitori della fazione avversa.

È questo l’avvio dell’età dell’oro della cannabis terapeutica?

Quello che stiamo attraversando è di certo un momento storico, che va sempre più ad evidenziare l’importanza delle proprietà curative di questa pianta. Infatti, è stata per anni al centro della ricerca farmaceutica e delle controversie interne alla comunità scientifica, fino alla scoperta della sua complessa gamma di applicazioni.

Nel campo del controllo degli spasmi THC e CBD migliorano il tremore e i movimenti involontari e agiscono sulle cause neurologiche all’origine di patologie come il Parkinson; inoltre, si configurano come una valida alternativa ai medicinali nella riduzione del numero e dell’intensità degli attacchi epilettici, evitando l’assunzione di farmaci che richiederebbero un dosaggio sempre maggiore e che potrebbero causare numerosi effetti collaterali, come crisi di astinenza e disturbi al fegato.

Per via delle sue qualità antidolorifiche e antiemetiche si trovano dei riscontri anche nel trattamento dei sintomi correlati al cancro, ad esempio nei forti dolori e nella nausea derivati dalla chemioterapia.

Oltre ai successi ottenuti nella cura di malattie croniche, la Cannabis viene in soccorso anche per problemi più diffusi come ansia e stress, infatti il consumo della qualità “indica” ha effetti rilassanti e ansiolitici.

Più che un passo avanti la decisione dell’Onu è un salto nel passato del pre-proibizionismo americano. Il consumo di Canapa terapeutica era diffuso e accettato già da secoli prima della nascita di qualsiasi ente internazionale, finché nel 1937 la Marihuana Tax Act del presidente statunitense Roosevelt ne ha decretato l’illegalità, contagiando rapidamente questa concezione al resto del mondo.

Da questo momento in poi l’associazione del termine Marijuana con quello di droga pesante è diventata automatica e diffusa, condizionando radicalmente l’opinione pubblica. È in un tale clima di chiusura mentale che nel 1964 sono ricominciati gli studi scientifici al riguardo.

Ormai le nuove generazioni sono stanche di dover sottostare all’anacronistico tabù della Cannabis e sperano che questo traguardo sia un ulteriore tassello nel quadro della liberalizzazione totale.

Il riconoscimento ufficiale di un’associazione come l’ONU rappresenta la definitiva risposta a tutti gli stereotipi legati all’uso di questa pianta, troppo spesso ridotta a una semplice droga, dimenticandone tutti gli effetti benefici nel campo medico e farmaceutico.

ASSORBENTI GRATIS IN SCOZIA di Margherita Pisanu e Claudia Tuveri

Lo scorso martedì 25 Novembre, come in molti sanno, in Scozia è stata approvata unanimemente la “Period Product (Free Provision) Bill”, ossia una legge atta a rendere gratuiti tutti i prodotti necessari al ciclo mestruale. Rispetto a molti altri Paesi, la Scozia era, da tempo, un passo avanti: il governo infatti garantiva già assorbenti gratis sia nelle scuole sia nelle università. Ma non era abbastanza. Perché bisogna spendere così tanto per un’esigenza primaria? È infatti sempre stato pensiero collettivo che l’acquisto di assorbenti o prodotti legati alle mestruazioni fosse una spesa molto alta che non tutti potevano permettersi. Da qui è infatti partita l’iniziativa di rendere gratuiti questi prodotti e molti sindacati, organizzazioni femministe e associazioni caritative si sono uniti per questa causa. L’iniziativa di portare in Parlamento tale proposta è stata presa da Monica Lennon, una delle deputate locali, ed è stata pienamente accolta anche dalla leader del Partito Nazionale Scozzese, nonché primo ministro di Scozia, Nicola Sturgeon.

Proud to vote for this groundbreaking legislation, making Scotland the first country in the world to provide free period products for all who need them. An important policy for women and girls.”

“Fiera di votare per questa legislazione rivoluzionaria, rendendo così la Scozia il primo Paese al mondo ad offrire prodotti legati alle mestruazioni gratuitamente a tutti coloro che ne hanno bisogno. Un’importante procedura per le donne e le ragazze.”

Così ha esordito la leader su Twitter, orgogliosa del suo Paese e del lungo cammino che ha compiuto per raggiungere finalmente una novità rivoluzionaria come questa. In Italia, al contrario, come tutti purtroppo sappiamo, la situazione è molto diversa: infatti l’IVA sugli assorbenti ammonta al 22%, la più alta in Europa, superando addirittura l’IVA di altri prodotti non indispensabili. Si stima che ogni anno in Italia vengano venduti 2,6 miliardi di salviette igieniche e che mediamente si consumino 12.000 assorbenti e la spesa annua ammonta a circa 126,88€ di cui IVA 22,88€.

Ma facciamo un passo indietro per capire meglio. Che cos’è l’IVA?

L’IVA è un’imposta che è stata introdotta all’inizio degli anni ’70 (in Italia il riferimento normativo fondamentale è il d.p.r. 633/1972), il cui nome è un acronimo per indicare l’Imposta sul Valore Aggiunto, ovvero la principale imposta INDIRETTA (cioè che colpisce solo il consumo e che quindi viene pagata interamente dal consumatore) attualmente in vigore in Italia e nell’ Unione Europea. Un’altra caratteristica dell’IVA è che è PROPORZIONALE, poiché il suo ammontare dipende dal prezzo del bene moltiplicato per l’aliquota di riferimento. Per “aliquota” si intende l’importo in percentuale su un determinato totale. Essa viene stabilita dalla legge e va calcolata sulla base imponibile, cioè l’importo su cui potrà essere calcolata e applicata un’imposta o un contributo.

Le aliquote IVA possono essere stabilite autonomamente da ciascuno Stato ed esse sono tre:

  • 4% – aliquota minima – per l’IVA sui generi di prima necessità;
  • 10% – aliquota ridotta – per l’IVA su servizi turistici, alimentari ed edili;
  • 22% – aliquota ordinaria – per l’IVA da applicare in tutti i casi non rientranti nelle prime due aliquote.

Come possiamo notare dunque, gli assorbenti in Italia non vengono considerati come un bene di prima necessità, nonostante lo siano, ma come dei beni di lusso, in quanto la loro IVA corrisponde a quella di automobili, gioielli o oggetti tecnologici.

Sono invece considerati beni di prima necessità, in quanto esenti da IVA, il lotto, le lotterie, le scommesse relative al gioco (nelle case da gioco autorizzate), i lingotti, le monete, le placchette d’oro.

Con l’IVA al 4% troviamo, tra le altre cose, latte, latticini, libri, quotidiani, occhiali, apparecchi ortopedici, volantini.

Con l’IVA al 10% abbiamo invece il tartufo, la carne, la birra, le spezie, lo zucchero, il cacao, il cioccolato. In Italia la strada da fare è ancora lunga e, nonostante sia un argomento scottante, sulle bocche di molti, e ci siano state numerose sollecitazioni, ancora nessuno si è effettivamente mosso in direzione di un provvedimento che possa legittimare questo diritto.

LA LINGUA DELLE FARFALLE recensione di Giada Manunta

“La lingua delle farfalle” di José Luis Cuerda, tratto dall’omonimo romanzo di Manuel Rivas, non è un film che potrebbe rientrare nella lista dei preferiti di qualcuno, o almeno di noi “centennials”. Tuttavia, a prescindere dal ritmo lento e della risoluzione discutibile, rimane impresso per giorni nella mente e impegna in alcune riflessioni che ordinariamente la maggior parte di noi non affronterebbe. 

La lingua delle farfalle (1999) | FilmTV.it

Il protagonista è un bambino di sei anni, Moncho, che si sta appena affacciando alla vita; inizia a frequentare la prima elementare (malvolentieri s’intende, a causa dei vari pregiudizi insidiati inconsapevolmente dai genitori) e a rapportarsi con un insegnante di orientamento repubblicano sui sessant’anni, Don Gregorio, e con i compagni di classe. Il passerotto, così come viene spesso chiamato dai genitori e dal suo maestro, inizia ad agitare le ali per spiccare il volo e prendere le distanze da una Spagna del 1900, dipinta solo di squallore, sangue e degrado. Siamo infatti nell’inverno/primavera del 1936, all’alba di una guerra civile nata dal colpo di stato che porterà Francisco Franco a capo di una delle tre dittature europee del Secolo Breve. E sarà esattamente quest’avvenimento a tarpare le ali del bambino e di tutta quella Spagna che credeva nella Repubblica. 

Alla luce di ciò, una delle tante riflessioni che vorrei proporvi è quella relativa alla figura dell’insegnante, tema che chiaramente ci riguarda in prima persona. 

Don Gregorio è un maestro che, soprattutto considerando il periodo storico analizzato, si distingue poiché non si limita a sproloquiare di nozioni infeconde ma appassiona i bambini e soprattutto Moncho, bambino vispo e attento osservatore: li assorbe in intense dimensioni oniriche, concede loro la smaterializzazione in epoche e luoghi altri. Così i bambini si trovano in groppa agli elefanti di Annibale che brama Roma, combattono le guerre napoleoniche con bastoni e pietre a Ponte Sampajo, scrivono canzoni d’amore tra i campi di lavanda della Provenza. E non solo imparano con trasporto, ma vengono educati con la gentilezza di un vecchio maestro affettuoso che, quando i bambini non ascoltano, non urla, non li batte, ma tace fino a quando non sono i bambini ad imporsi il silenzio per poter continuare a far tesoro dei suoi seducenti fiumi di sapere; la stessa gentilezza che lo porta a chiedere scusa quando si accorge di aver ferito la sensibilità di un piccolo allievo, trattandolo come suo pari; la stessa gentilezza che sboccia come un fiore maturo, pronto a nutrire tante piccole farfalle.

Farfalle come presagi: i loro colori e significati

Ed è proprio al mondo dei lepidotteri che il titolo si ispira. In una scena, il maestro spiega agli alunni come questi insetti suggestivi si nutrono attraverso la spiritromba:

“La lingua della farfalla è una tromba avvolta a spirale come una molla da orologio. Se un fiore l’attrae, la srotola e la infila nel calice per succhiare il nettare.”

Non potremmo forse trovare un paragone migliore per l’Apprendimento degno di tale nome? No. In una metafora c’è libertà di pensiero ed espressione (dice infatti “se un fiore l’attrae”, quindi da rilevanza alla volontà), necessità (appunto perché parliamo sempre di sostentamento, essenziale alla vita e alla crescita, figurata e non) ma soprattutto trasporto (con l’espressione finale indubbiamente trasla il piacere per così dire “gustativo” a quello mentale).  

Una personalità forse più al passo con la pedagogia moderna di quanto non lo siano alcuni nostri educatori contemporanei.  Non è solo un insegnante, ma un mentore che, non imponendo le proprie ideologie politiche e le proprie dottrine religiose (come invece tutt’oggi fanno certe figure non proprio imparziali e non proprio laiche), condivide più prospettive e trasmette valori universali, quali l’interesse per ciò che ci circonda, fame di vita e di conoscenza, intesa come crescita personale ed espansione della propria persona aldilà dello spazio e del tempo, ed infine apprezzamento per ciò che, dopo una prima occhiata, potrebbe sembrare diverso.  

Altri spunti potrebbero essere le istituzioni religiose, spesso anacronistiche, che quindi non riescono a tenere il passo con i tempi, o ancora i sogni di un giovane che sembrano brillare troppo rispetto all’ambiente socio-culturale in cui è immerso, oppure la condizione umana da sempre vissuta in una tensione costante tra sensualità edonistica, bestialità, speranza e fragilità. 

Il finale non suscita rabbia, ma pena e tristezza per le personalità che vengono ingoiate da quel buco nero che è l’ignoranza. Tutti gli insegnamenti sembrano svanire nel momento in cui il bambino si accinge a lanciare la pietra in uno spasmodico gesto. La guerra, la miseria, l’assenza di guide e cultura soffocano tutto ciò che è stato appreso fino a quel momento. O almeno così pare…  

Insomma, non sarà il più alto livello di cinematografia, ma vale la pena vederlo per gli spunti che offre.  

Qualora qualcuno poi voglia condividere un pensiero, è chiaramente ben accetto sul nostro profilo Instagram! (@agora.asproni) 

IL BLACK FACE di Irene Biggio

Il “Black Face” è una pratica teatrale, nata nell’America degli anni ’20, che si basa su una stereotipizzazione di uomini e donne neri volta alla denigrazione di questi ultimi da parte di individui bianchi facenti parte del mondo dello spettacolo che, dipingendosi la faccia di nero, sottolineano la loro superiorità, rappresentando i neri come pigri, ignoranti, disonesti e incapaci di parlare senza storpiare ciò che dicono.

Oiza on Twitter: "E per chi dice "ma la blackface/maschera del nero  stereotipato è stata solo in America, in Italia no", fate una ricerca  (scusate se vi distruggo dei miti). 1) Totò

Al giorno d’oggi, questa usanza viene considerata estremamente razzista, eppure a volte ci si imbatte in episodi dal significato indefinito, che ci lasciano dubbi sui fini e sulle motivazioni che stanno dietro a certi comportamenti sociali, o a determinate scelte mediatiche.

In questo articolo si analizzeranno le origini del fenomeno e la sua connotazione moderna.

Uno dei più popolari attori di blackface era il drammaturgo e attore Thomas Darthmouth Rice che dal 1923 girò gli USA interpretando il personaggio “Jim Crow” con il trucco nero, vestito di stracci , parlando lo slang nero e performando una canzone e un ballo insegnatogli da uno schiavo. In dieci anni la blackface raggiunse grande popolarità sia al sud che al nord e arrivò al mondo del cinema.

fred-astaire-blackface-swing-time-1.jpg (503×620) | Fred astaire, Fred and  ginger, Celebrity stars
Fred Astaire in Swing Time (1936)

Grandi star come Judy Garland, Shirley Temple e Mickey Rooney interpretarono personaggi neri, ma l’esempio piu’ importante è forse quello di Fred Astaire e il suo omaggio al ballerino di tip-tap Bill Robinson in “Swing Time” (1936).

Il pubblico era così tanto abituato a facce nere come la pece che anche gli attori neri dovevano colorarsi la faccia per potersi adattare allo stereotipo.

Film White Chicks continues after fifteen years - Teller Report

Oggigiorno, dal punto di vista cinematografico, non si fa piu’ utilizzo di blackface, a parte qualche eccezione “al contrario”, come nella commedia “White Chicks” che racconta la storia di due agenti della CIA neri che sono costretti a fingersi due ragazze bianche, viziate e superficiali, figlie di un miliardario per non perdere il proprio lavoro. Questo“blackface al contario” è un momento di derisione bonaria che, unito a una stupidità esilarante di fondo, di certo non denigra i bianchi.

Anche il mondo della moda ha destato scandalo: ad esempio, Prada con i suoi charm della collezione “Pradamalia” oppure i maglioni a collo alto di Gucci.

Recentemente si è parlato, inoltre, del programma RAI “Tale e Quale Show”, nel quale i concorrenti imitano cantanti famosi, da Mina ad Aretha Franklin. I partecipanti in gara vengono completamente trasformati nel personaggio che devono interpretare grazie a protesi e a costumi che riproducono le fattezze dell’ artista assegnato.

Tale e Quale Show è razzista? La polemica sul Blackface - TvBlog

Nel caso si debbano interpretare artisti neri la produzione fa utilizzo di un trucco nero e, per quanto le intenzioni possano essere buone, la trasmissione ha suscitato sentimenti negative, per esempio, il cantante Ghali ha espresso il suo malcontento scrivendo sulle Instagram stories: “Non facciamo una bella figura né con chi è meno superficiale in questo paese né con chi ci guarda da fuori. Ci sono tante caratteristiche che si possono riprodurre ed imitare in un personaggio. É la seconda volta che mi emulate in questo modo, dipingendo la faccia oltre a fare commenti usando luoghi comuni e paragoni su aspetto fisico e bellezza. Non mi sono offeso, davvero. Ma non ho nemmeno riso. Bastava l’ autotune e un bel look. Perchè il blackface è condannato ovunque, specie in un anno come questo (si riferisce ai movimenti del Black Lives Matter) , in cui gli avvenimenti e le proteste sono stati alla portata di tutti.” Inoltre la trasmissione ha portato il canale youtube “Afroitalian Souls”, gestito da influencer neri italiani impegnati nella lotta contro il razzismo, a caricare un video a proposito, intitolato “Blackface in Italia: perchè è razzista?”.

Purtroppo il tema della Blackface è ancora estremamente attuale. L’uomo continua a sbagliare ma, in questo periodo di rivoluzioni sociali, la cosa positiva è che se qualcuno commette un errore viene immediatamente redarguito.

FRANGAR, NON FLECTAR! La tragedia di Bitti vissuta in prima persona di Anna Cossellu

“Il 18 di novembre di un anno che non so, anche un passero da un ramo, per paura se ne andò

cantava Al Bano nel 1968; per Bitti questa canzone apparteneva a Giovanni Farre che, proprio il 18 novembre del 2013, era stato travolto da un’ondata di fango e detriti mentre tentava di lasciare la sua campagna. Il suo corpo non venne mai ritrovato.    

 Il ciclone Cleopatra che aveva travolto il paese, era stata la più grande precipitazione registrata negli ultimi 200 anni e aveva danneggiato in modo grave vie e piazze. I fondi che erano stati stanziati dallo Stato e dalla Regione destinati al ripristino e al risanamento dell’impianto idrico di tutte le cittadine colpite, ammontavano a 420 milioni di euro di cui ad oggi si sono potuti usare solo 48. 

Alluvione in Sardegna (foto da Bitti) il giorno dopo

Sette anni e dieci giorni dopo, il 28 di novembre, le precipitazioni che si verificano sono molto intense e sono superiori a quelle registrate negli ultimi 700 anni, i due fiumi principali, Giordano e Cuccureddu, che attraversano il paese intero tramite una serie di canali sotterranei, straripano e trasportano detriti con un’ondata che, dopo aver sommerso i quartieri che si trovano sotto i canali tombati, travolge l’intera valle confluendo nei quartieri dove scorre in canali sotterranei il Rio Podda: a questo punto la forza dell’ acqua è sempre maggiore e talmente forte da portare via con sé tre persone, auto, mobili, caldaie e tutto ciò che trova nel suo cammino.  

Questo è ciò che troverete in ogni giornale, non vi racconteranno la paura, la preoccupazione, il frastuono della pioggia, non vi sapranno raccontate le ore precedenti al disastro, i lampi e il fragore dei tuoni nella notte, il silenzio assordante che ha avvolto il paese un’ora dopo il passaggio della piena e ancora lo shock di venire a conoscenza della presenza di vittime. 

È estremamente difficile raccontare, spiegare come la notte tra il 27 e il 28 sia stata talmente rumorosa che i muri delle case sembravano tremare, ancora più difficile è risvegliarsi ed accorgersi che la pioggia continua a scendere e non sembra fermarsi e in quel momento ricordare il 18 novembre del 2013, pensare a Giovanni Farre, chiedersi se tutti sono rientrati dal lavoro sani e salvi, sperare in una minima ricezione telefonica per sapere se sono tutti vivi o se qualche frana ha bloccato loro il passaggio. Poi attendere, affacciati al balcone, che tutto abbia fine. 

Ho visto automobili essere travolte dall’acqua e combattere una guerra con la corrente e poi alberi che erano stati piantati più di cent’anni fa, ridotti a semplici rametti, trasportati via come piccole barche. E poi lo sguardo dei vicini di casa, di tutti noi che, con paura, guardavamo dalle finestre la forza più grande che avessimo mai visto, mentre si riprendeva il suo posto, come a ricordarci che non siamo noi i suoi padroni.  

Quando tutto si è fermato, al fragore, ai rombi e allo scorrere dell’acqua si è sostituito un grande silenzio, lentamente tutti sono usciti per controllare case, auto e strade; molti non hanno trovato più niente, molti hanno provato a raggiungere i propri cari e non hanno trovato modo di attraversare gli ostacoli portati dall’acqua e qualcuno ha realizzato di aver perso persone importanti.  

E poi?

Poi c’è il sentire che la piena ha travolto anche la casa dove abitavano persone conosciute; sapere che qualcuno è salvo quasi per miracolo; scoprire, dalle persone che passano davanti alla tua casa, che la piazza Asproni è stata travolta e che ora è ricoperta da un muro di detriti di quasi cinque metri, invalicabile, che ha coperto i primi piani all’incirca di cinquanta case; sentire ancora che la parte più bassa del paese è ancora ricoperta d’acqua, poiché l’ondata ha buttato giù muri e travolto tante case, dove il fiume ora scorre liberamente. Il giorno seguente, ognuno di noi, ha realizzato con i propri occhi ciò che era successo, si è rimboccato le maniche e ha raccolto ciò che rimaneva da case, auto e negozi. 

Noi, nati e cresciuti a Bitti, abbiamo perso quasi tutto, ma posso dire con orgoglio che nessuno di noi perderà mai la forza di lottare con tutto sé stesso, di resistere, di rialzarsi anche quando la sfida è grande e la speranza non sembra poter esistere. 

Tutti gli aiuti che sono arrivati hanno ricordato quanto non siamo soli, quanto, anche vivendo in un momento in cui il distanziamento sociale rappresenta la garanzia per la nostra sopravvivenza, la solidarietà e la parola comunità possono e devono ancora esistere. Probabilmente senza le forze dell’esercito, dei vigili del fuoco, della protezione civile, di tanti altri che hanno offerto i loro mezzi di movimentazione di terra e dei molti volontari non saremmo riusciti a sgomberare alcune delle vie principali dalle montagne di detriti. 

I volontari e la Brigata Sassari che hanno aiutato a sgomberare via Cavallotti, solo alcuni dei tanti che hanno offerto e offrono tutt’ora una mano ai cittadini bittesi.

Il futuro sembra riservare al nostro paese un cambiamento sostanziale e una totale delocalizzazione delle zone abitate per fare spazio ai fiumi che erano stati inseriti in canali tombati alla fine degli anni venti. Eppure è ormai crescente la consapevolezza e il desiderio di ricominciare, di lasciare un luogo che ti ha dato tanti ricordi e allo stesso tempo tanto dolore come la propria casa. 

I tempi di ricostruzione saranno piuttosto lunghi, ma proprio come cita l’epitaffio di Giorgio Asproni, che nacque qui a Bitti all’inizio dell’Ottocento, 

Frangar, non flectar!” 

Abbiamo allegato qua sotto la raccolta fondi ufficiale del comune per chi fosse interessato a dare un aiuto concreto:

AXOS, ANIMA MUNDI di Matteo Podda

L’Anima mundi (anima del mondo) è un concetto della filosofia platonica che rappresenta il principio unificatore da cui tutti gli organismi prendono forma, questi, seppur identificandosi nelle rispettive individualità, risultano legati da una comune anima universale. È questo il concept scelto da Axos, all’anagrafe Andrea Molteni, per dare il titolo all’album che chiude la trilogia aperta nel dicembre del 2017 con l’uscita di “Anima Mea” e sviluppatasi poi a novembre 2018 con “Corpus: l’amore sopra”. Come si può dedurre dai titoli, i progetti fanno capo a un disegno unico, che parte dalla riscoperta della propria anima individuale, si concretizza nel mondo empirico fino a confluire, con un tratto armonioso, all’interno dello spirito della collettività.

Nel viaggio si intrecciano in modo indissolubile due fil rouge: l’individuo Axos e l’Amore.

Il primo ha la funzione di narrare la vita e la sfera emotiva dell’artista, ma si eleva a speculum nel momento in cui trova uno spettatore che riesca a identificarvisi, facendola propria e reinterpretandola: ecco ritornare anche qua l’anima del mondo. L’elemento individuale emerge in modo preponderante nei primi due album per risultare poi leggermente in disparte all’interno di “Anima Mundi”, dove è descritto principalmente in due (bellissime) tracce:

  • Io: è la prima canzone dell’album e si configura come un monologo in cui l’autore parla con il proprio Ego, la sua parte più riposta e profonda, che egli maschera da un mondo che non la capirebbe e che talvolta non capisce nemmeno lui stesso. É così che Axos si ritrova coinvolto in una battaglia con sé stesso che gli procura un grande e intimo dolore.
  • Anima e Nome: probabilmente la canzone più incisiva dell’album racconta, con la tecnica del flusso di coscienza, l’intera vita di Axos, dalla strada che gli fu casa per due anni della sua vita all’agiatezza che al giorno d’oggi la vita da artista gli concede. La netta distinzione tra questi momenti è evidenziata dalla scrittura e dal tono dell’artista, che nella prima strofa risulta volgare e aggressivo, mentre nella seconda assume un atteggiamento più pacato.

Il secondo è un tema peculiare dell’artista che in Anima Mundi trova la sua forma più completa: l’amore, che delinea, infatti, il mezzo attraverso il quale le entità individuali convergono all’interno dell’anima collettiva.  Nell’album il sentimento, estremamente complesso, si sintetizza articolandosi in più forme: analizziamolo facendo riferimento alle tracce.

  • 50milabaci: il pezzo è un elogio, un inno al gesto del bacio, presentato in tutte le sue variabili. Si fa riferimento a celebri baci nel mondo del cinema (dal “Notorious” di Hitchcock, fino a “Ghost” e “Spiderman”, passando per “Fight Club”), della letteratura (con Romeo e Giulietta) e dell’arte (“dipingo i baci del Louvre”). Ma il bacio più bello giunge alla fine del brano, con il riferimento a un padre che bacia la pancia della madre incinta: “Quelli sulla pancia più belli che in bocca, che è come darli a due alla volta, sì, due anime ed un’ombra”.
  • Tu (A mia figlia): Senza alcun dubbio la traccia più emotivamente coinvolgente dell’intero album, è una lettera scritta da Axos alla figlia in cui il poeta anticipa le “prime volte”, lasciando come sfondo un messaggio estremamente chiaro: “il tuo dolore lo conosci solo tu […] chi potrà farti del male decidi tu, io ti insegnerò a pensare”.
  • Danika: A mio parere la canzone più bella dell’album, il titolo fa riferimento all’attrice pornografica amatoriale Danika Mori, che si discosta dallo stereotipo della pornoattrice in quanto i suoi video hanno come protagonisti solamente lei e il fidanzato Steve. Il personaggio di Danika è in questo modo elevato a paradigma di un amore estremamente passionale ma che non sfocia nella lussuria, rimanendo legato a un vero e profondo sentimento.
  • Emily: La canzone tratta un amore vissuto dall’artista con estremo coinvolgimento, questo lo ha portato a conoscere la partner in ogni minimo dettaglio e ad avere accesso ai suoi demoni più profondi, scoprendo cosa significhi amare davvero. La fine di questa relazione segnerà oltremodo Axos, il quale, in occasione dell’uscita del brano, affermerà:

    “Amore e fine si contrastano. È un duello incessante che mi ha insegnato che dietro ad ogni viso c’è un inferno e che dentro ad ogni inferno c’è qualcuno che ha bisogno di amore e qualcuno che ha bisogno di amare per uscirne. Emily la dedico a una persona che mi ha visto sfigurarmi. A una persona che ho sfigurato. Alla purezza di una fine sensata.”

Spero, a questo punto, di avervi trasmesso abbastanza curiosità perché concediate almeno un ascolto a questo album, ma, se così non fosse, voglio fornirvi tre ulteriori ragioni per cui “Anima mundi” merita di essere nella vostra playlist: la prima è la potenza evocativa della scrittura di Axos, che attraverso metafore e similitudini insolite riesce a rendere alla perfezione tutto ciò che presenta, dando spesso un senso poetico agli oggetti di uso comune, in un atteggiamento quasi barocco; la seconda è la poliedricità dei generi a cui fa riferimento l’album, infatti si passa repentinamente dal Rap, al Lo-Fi fino ad arrivare al Pop e al Rock, creando una rete di canzoni adatte a tutti i tipi di pubblico; ultima, ma non meno importante, è l’interpretazione che Axos  ci offre dei suoi testi, l’artista, infatti, grazie alla sua voce calda e profonda tocca tutte le corde dello spettatore, alternando toni pacati e dolci, struggenti e passionali, aggressivi e macabri, come se fosse un attore sul palcoscenico che deve coinvolgere il pubblico nella sua poesia.

Detto ciò, credo che le motivazioni bastino e, infine, mi permetto di darvi un consiglio per l’ascolto: prendete quaranta minuti per voi stessi e distendetevi nel vostro letto, mettete gli auricolari con il volume al massimo, chiudete gli occhi e lasciatevi avvolgere dalla poesia.

IL PROBLEMA DELLE SEPOLTURE AI TEMPI DEL CORONAVIRUS di Stefano Di Maio

NY sotto shock: centinaia di cadaveri lasciati per strada in camion frigoriferi, continua il problema delle sepolture ai tempi del Coronavirus. I corpi, circa 650, appartengono a persone morte a causa del virus nei mesi scorsi sono ancora parcheggiati in camion frigoriferi sul lungofiume a Brooklyn. 

New York non è nuova a macabri scandali di questo tipo: già lo scorso 30 aprile quattro camion pieni di cadaveri sono stati trovati parcheggiati in strada a New York e i passanti denunciavano il forte odore. Secondo la NBC, che cita fonti del NYPD, la responsabilità cadrebbe su un’agenzia di pompe funebri di Brooklyn che, esauriti i posti in periodo di Coronavirus, avrebbe utilizzato camion riempiti di ghiaccio come deposito per le salme dei defunti. 

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Attualmente invece i già citati 650 corpi non si trovano sul lungofiume a causa dell’inefficienza di un’agenzia privata, ma poiché queste salme appartengono a persone delle quali non è stato possibile rintracciare le famiglie o a quelli le cui famiglie non si potevano permettere un’adeguata sepoltura. 

Lo Stato ha provato maldestramente a disporre un contributo per i funerali, proponendo a maggio 900 dollari fino ad arrivare ai 1700 attuali; cifre irrisorie se consideriamo che il costo medio di un servizio tradizionale con sepoltura, si aggira sui 9 mila dollari e che una cremazione costa circa 6.500 dollari. 

Ovviamente non solo l’America si ritrova ad affrontare problemi di natura simile, anche in Europa a marzo si sono affrontate varie difficoltà riguardo questi temi; il caso più eclatante probabilmente è quello che ha colpito la comunità islamica europea. 

Non sono solamente i vivi, infatti, a non potersi più spostare liberamente a causa della pandemia di Covid-19. Le comunità musulmane di tutta Europa si sono trovate di fronte all’impossibilità di trasportare i propri cari defunti nei Paesi d’origine a causa della chiusura delle frontiere. 

Un problema soprattutto per i migranti di prima generazione, arrivati in Europa negli anni ’60 e ’70 in cerca di lavoro, e che preferiscono essere sepolti nel luogo in cui sono nati.

Il Marocco, ad esempio, ha sigillato i propri confini sia per i vivi che per i morti. 

In Francia, dove vive la più grande popolazione musulmana d’Europa, circa 5 milioni di persone, il numero di morti si è moltiplicato a fronte di un numero limitato di spazi dedicati alla sepoltura islamica nei cimiteri francesi. La maggior parte dei defunti veniva infatti trasportata, in tempi normali, nei Paesi di origine (soprattutto Marocco e Algeria). 

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Il rito islamico richiede che i morti siano sepolti nella tomba in cui riposeranno per sempre. Tuttavia, sia nei Paesi Bassi, dove l’associazione degli Imam non ha posto veti o restrizioni, che in Francia le concessioni durano di norma 15 anni e devono essere rinnovate, pena rimozione del corpo: un dettaglio non irrilevante che crea complicazioni finanziarie, culturali e religiose ad alcuni fedeli di religione islamica. 

Il problema è anche economico per le aziende che lavorano nel settore: ad esempio, l’azienda “Schiphol Mortuarium”, specializzata nel rimpatrio di corpi dai Paesi Bassi, ne sta risentendo. La camera mortuaria di solito facilita il rimpatrio di circa 2 mila salme ogni anno, di cui 500-600 verso il Marocco, stando ai dati indicati dal direttore Hans Heikoop. 

Ora i corpi sono tenuti in celle frigorifere in attesa dei voli, vi possono rimanere per settimane o per mesi, se imbalsamati. Se la maggior parte dei voli passeggeri è bloccata a terra, alcune bare possono ancora essere trasportate sugli aerei cargo verso paesi come la Turchia, ma non in Marocco. 

E in Italia? 

Come denuncia Badia Bouzekri, vice presidente dell’Unione comunità islamiche italiane (UCOII) a Osservatorio Diritti, diverse amministrazioni locali non concedono aree riservate alla sepoltura per i fedeli musulmani, nonostante i cimiteri in Italia siano comunali, non religiosi, e la legge preveda che ci possano esserci reparti speciali per le persone di culti diversi da quello cattolico. 

Gli spazi assegnati alle comunità islamiche italiane sono 48 in tutto il Paese per una comunità musulmana stimata in oltre 2 milioni e 600 mila persone. L’Imam Mustapha Baztami, delegato nazionale UCOII per il dialogo interreligioso e segretario della comunità islamica di Teramo, dice a Euronews che si tratta di “un’emergenza nell’emergenza”. 

Nonostante il ministero dell’Interno si sia impegnato a trovare soluzioni, scrivendo ai prefetti o esortando i comuni ad accettare nei cimiteri defunti di altre province, e nonostante siano stati in questi mesi aperti diversi spazi cimiteriali (soprattutto nel nord Italia) “le aree non bastano”. 

Dunque il problema delle sepolture in questo particolare periodo storico sta tenendo banco praticamente in ogni continente, senza contare che ulteriori problemi sono rappresentati dalle divergenze socio-culturali e i problemi economici delle varie realtà nazionali in giro per il mondo; l’augurio di un quanto più prossimo ritorno alla normalità si fa sempre più sentito soprattutto quando si tratta di un tema, quello delle tombe e dei riti funebri che, come Foscolo ci insegna nei “Sepolcri”, sono l’unico modo, insieme alla poesia, di eternare il ricordo dei nostri defunti. 

L’INFLUENZA POSITIVA DEGLI INFLUENCER di Maria Antonietta Balvis e Marta Seddone

Con questo gioco di parole inizia il nostro
articolo e sarà chiaro ormai a tutti quale sarà l’argomento che tratteremo: gli influencers.
Questo ruolo, che con la mostruosa avanzata del progresso tecnologico e dell’influenza mediatica è diventato immanente nella vita di tutti i giorni, è probabilmente nato solo per gioco, ispirato dal suo antenato blogger. Ora, chiunque voglia diventare un colosso dei social media, può farlo con un semplice strumento, in mano a tutti, e un pizzico di fortuna
Di recente ci siamo trovate a discutere sul fatto che questo mestiere sia stato spesso ingiustamente demonizzato. È infatti un’occupazione estremamente discussa in quanto, fino a pochissimo tempo fa, non era riconosciuta come un vero e proprio lavoro, (e talvolta ancora adesso non viene considerato come un vero lavoro) bensì veniva reputata una forma di guadagno “furba” e ideale per persone nullafacenti. E, probabilmente, in molti casi è così; ma noi siamo qui per mostrarvi l’altra faccia della medaglia, cioè quelli in cui gli influencers si sono
dimostrati più che degni della posizione acquisita.
Il primo esempio è la famosissima (e per di più nostrana) @chiaraferragni, che iniziando con un semplice blog, in pochi anni è riuscita a fondare un vero e proprio impero in scala mondiale, collaborando con tantissimi brand di alto rango come Gucci, Dolce & Gabbana, Louis Vuitton, per poi fondare un suo brand di moda con negozi sparsi in tutto il mondo, per un totale di oltre 300
boutique.

Una ragazza che prima ancora di essere un’imprenditrice digitale, è una persona dotata di grande empatia e bontà
d’animo, qualità mostrate egregiamente insieme a suo marito Fedez, soprattutto quest’anno durante la pandemia di COVID-19. La coppia è infatti entrata a far parte di associazioni benefiche no-profit milanesi per aiutare chi è stato messo in ginocchio dalla crisi, ha invitato i propri follower a trascorrere le vacanze estive nel “Bel Paese”, essendo loro stessi d’esempio, recandosi prima in Sardegna e visitando l’entroterra e poi in Puglia (ovviamente in tutta
sicurezza).
Ancora possiamo citare la non-altrettanto conosciuta @carlottavagnoli, anche lei influencer che vediamo impegnata in numerosissime cause, prima fra tutte la violenza sulle donne. Emblematico è il post che vede lei nuda, senza filtri, dove esprime il suo concetto di intimità in relazione a un fatto di cronaca recentemente accaduto che vede vittima di Revenge Porn un’insegnante, per questo licenziata dal datore di lavoro. Come didascalia di tale foto scrive: “L’intimità è sempre stata femmina e questo ha contribuito a farci avere dubbi, segreti e poca informazione sui nostri corpi […] Ma quando mi sento distante dalla mia fisicità mi metto nuda davanti allo specchio e ripercorro tutte quelle linee che non dovremmo mai esporre e le trovo sempre meno intime, sempre più rumorose e sempre più rivoluzionarie.” Con questo bellissimo post (che vi invitiamo a leggere, se ancora non lo avete fatto), vuole lanciare prima di tutto un messaggio di denuncia alla società che vede il corpo femminile come un tabù, contribuendo a renderci ignoranti sulle cose che lo riguardano, tanta è l’aura di vergogna che lo circonda. Con la frase citata sopra, Carlotta ha sicuramente voluto dire che l’unica arma che possiamo usare per uscirne è l’amor proprio, imparare a volersi bene e a non aver paura dei nostri stessi corpi, cercando
semplicemente di ascoltarli e capire di cosa hanno bisogno.
Un altro esempio ancora è @avvocathy (Cathy La Torre) attivista, influencer e avvocato. Impegnata a pieno nella lotta per l’uguaglianza e l’eliminazione dell’intolleranza, sostiene che non esistano cause perse, ma solo cause che devono ancora essere combattute. Questo concetto è approfondito nel suo libro, uscito di recente, dal titolo “Nessuna causa è persa”. Esercita la sua professione nella vita reale ma anche sui social, in cui riporta e discute i più disparati fatti di cronaca, quasi come scrivesse vere e proprie arringhe. Espone sia fatti positivi,
“passi avanti” della società, che negativi (spesso violazioni dei diritti umani).

Troviamo poi un account gestito da una coppia, @papaperscelta, due ragazzi di nome Carlo e Christian. Due papà, che sfruttano il loro profilo per raccontare la quotidianità di una famiglia arcobaleno, diffondendo consigli e cultura sull’omogenitorialità. Purtroppo non mancano insulti e calunnie di utenti omofobi, ai quali rispondono sempre con grande gentilezza ed educazione, cercando di far capire che l’amore è bello
in qualsiasi forma si presenti. Un concetto importante che vogliono sottolineare è quello di famiglia: questa non ha
una struttura specifica, non è una cosa unilaterale da vedere in un solo modo. Famiglia è dove ci si sente a casa, dove c’è amore e rispetto.
Per ultimi, non per importanza, vorremmo citare un’altra coppia, @raissarussi e @mibayed (Mohamed Bayed), due giovani torinesi quotidianamente impegnati nella lotta contro le discriminazioni razziali. A causa delle origini e delle scelte religiose, i due sono, nella maggior parte dei casi, soggetti a delle “shitstorms”, ossia a dimostrazioni di odio puro e immotivato. Tramite uno spiccato senso dell’umorismo, mettono volutamente in luce l’errore che commette chi commenta con l’intento di ferire, e lo rendono motivo di risate. La risposta che i due hanno riservato agli haters e la lezione che ci insegnano è proprio questa: rispondere all’odio con il sorriso.
Con questi modelli, sicuramente pochi rispetto alla moltitudine di influencers che portano avanti propositi nobili e positivi, speriamo di aver sottolineato l’utilità dei social, e quanto un uso intelligente di questi possa essere di
arricchimento per le nostre conoscenze.
Non soffermiamoci solo sugli aspetti negativi (alcuni espressi nell’articolo
dell’edizione precedente, non perdetevela!) che la tecnologia indiscutibilmente ha, ma guardiamo anche come possa essere fonte preziosa
di princìpi ed insegnamenti.
Con questo articolo speriamo di avervi offerto uno spunto di riflessione, e magari avervi fatto conoscere nuovi profili interessanti da seguire.
Alla prossima!

COSA MANCA AI POLITICI ITALIANI DI OGGI? di Marco Tupponi

Oggi un politico con gli occhialini, che leggesse il greco e il latino, citasse interi canti di Dante a memoria, parlasse il tedesco (Alcide de Gasperi) e il russo (Palmiro Togliatti) come l’italiano sarebbe orribilmente antipatico ai colleghi e agli elettori.

Questo estratto di un articolo di Aldo Cazzullo, celebre inviato ed editorialista del Corriere della Sera, nonché scrittore di fama nazionale, non deve assolutamente passare inosservato, piuttosto deve offrire uno spunto di riflessione, perciò lo analizzerò punto per punto.
“Leggesse il greco e il latino” rimanda necessariamente ed innegabilmente ad una prerogativa tipica, peraltro, di alcuni degli alunni che frequentano questa scuola, ossia quelli del Liceo Classico Tradizionale: ciò che dice Cazzullo risulterebbe fuori luogo se si interpretasse come un elogio al Liceo Classico, inteso come “fabbrica di uomini politici”, tornando così al progetto originario che effettivamente prevedeva che il Liceo stesso fosse lo strumento di formazione delle classi dirigenti (concetto oramai superato).
Eppure il punto del discorso del citato editorialista è un altro.
Non vuole elogiare il politico che conosce il greco, il latino, i versi di Dante, il russo o il tedesco, piuttosto vuole criticare, in maniera velata e indiretta (tipico dei giornalisti del Corriere della Sera), la situazione attuale: lungi da me il voler dire che la politica sia un “affare aristocratico”, però ricordiamo anche che i politici stessi rappresentano, agli occhi del mondo, una nazione intera; ministri degli esteri che non parlano un inglese corretto (con una pronuncia di certo non anglosassone), ministri degli interni che si presentano al Parlamento Europeo con addosso una maglietta con su scritto “No €uro”, primi ministri che, nel bel mezzo di una conferenza stampa sulla situazione italiana legata alla pandemia da COVID-19, attaccano pubblicamente i membri dell’opposizione per i propri comportamenti (i miei riferimenti, pur non essendo
specificati i nomi, sono ben precisi): è questa l’Italia? Noi siamo questo?

Gli esempi che Cazzullo cita non sono casuali: De Gasperi e Togliatti. Tralasciando la loro linea di pensiero, erano uomini politici nel vero senso del termine, rendevano l’Italia celebre nel resto del mondo e non di certo per gaffe o scivoloni durante i loro discorsi, piuttosto per la loro fermezza politica e per l’evidente grandezza intellettuale (del primo è celebre, ad esempio, il discorso a Parigi alla Conferenza della Pace, dove, entrato in punta di piedi, ne uscì “vincitore”; al secondo era stato proposto, da Stalin in persona, di ricoprire la carica di segretario generale del “Kominform”,
ossia un’organizzazione internazionale che riuniva tutti i paesi comunisti).
Appoggiando la tesi di Cazzullo, tuttavia, non voglio arrivare ad una
soluzione scettica, fine a sé stessa (ad esempio, dicendo “La politica italiana di oggi fa schifo”, uno dei commenti più diffusi tra noi italiani): sarebbe troppo facile arrendersi in questo modo. Piuttosto il mio obiettivo (o forse desiderio) è quello di offrire a chi legge degli esempi positivi e negativi, cosa è da seguire, a parer mio, e cosa invece da evitare. Sono stanco di vedere l’Italia come lo zimbello dell’Europa: certamente per saper governare è necessario avere alcune capacità innate ma occorre altrettanto avere una certa cultura enciclopedica che, checché se ne dica, forma il modo di pensare, senza però sfociare nei due estremi viziosi (l’eccessivo estraniamento dalla realtà e l’assenza di una conoscenza adatta al ruolo), entrambi incarnati, al giorno d’oggi, dai nostri politici.
Forse personaggi del genere, come viene scritto da Cazzullo stesso, verrebbero snobbati, considerati come dei “professoroni”, dei “teorici”.
Forse la mia è un’utopia?

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